Trump riaccende la guerra commerciale: chi paga davvero il prezzo dei dazi?

Tra inflazione globale e riposizionamenti strategici, si riapre lo scontro tra potenze. Ma nel caos può nascere un nuovo equilibrio internazionale, più equo e sostenibile?

2 aprile 2025 il presidente Donald J. Trump ha firmato un ordine esecutivo che impone nuovi dazi sulle importazioni provenienti dalla Cina, dal Messico e, sorprendentemente, anche da alcuni Paesi dell’Unione Europea. Una mossa che ricorda da vicino quanto già avvenne nel 2018, quando durante il suo primo mandato avviò una guerra commerciale con Pechino e altri partner economici. Ma questa volta, il contesto è profondamente diverso: il mondo post-pandemico, sconvolto dalla crisi energetica del 2022 e dalle tensioni geopolitiche in Ucraina, Medio Oriente e Taiwan, è molto più fragile e interconnesso.

Trump giustifica la misura con lo slogan “Bring Jobs Back, Again”, puntando il dito contro l’eccessiva dipendenza americana dalle filiere globali e promettendo una rinascita industriale “patriottica”. I nuovi dazi colpiscono in particolare il settore dell’automotive elettrico cinese, l’acciaio europeo e alcune componenti tecnologiche provenienti dal Messico. Il valore medio dei dazi varia tra il 25% e il 50%, ben al di sopra delle soglie WTO.

Nel 2018, Trump aveva adottato una strategia simile con l’intento di ridurre il deficit commerciale americano e “punire” la Cina per pratiche scorrette di dumping e furto di proprietà intellettuale. Ma i risultati furono ambigui: le esportazioni cinesi calarono inizialmente, ma poi si riorientarono verso altri mercati; le industrie americane non tornarono in patria in massa, e il costo maggiore lo pagarono i consumatori, con un incremento medio dei prezzi sui beni colpiti fino al 20%.

Nel 2025, però, l’amministrazione Trump II si muove in un contesto di maggior nazionalismo economico globale. L’UE ha già adottato meccanismi di carbon border adjustment, l’India ha aumentato le barriere tariffarie e perfino il Canada ha adottato una linea più protezionista. Il mondo interdipendente del 2010-2020 sembra ormai un ricordo.

Quali sono le differenze rispetto al 2018:

  1. Tempismo post-crisi: la misura arriva in un’economia mondiale ancora convalescente dopo choc multipli (Covid, guerra in Ucraina, crisi climatica).
  2. Obiettivi più politici che economici: i dazi diventano uno strumento di pressione strategica, non solo economica.
  3. Reazioni più rapide e coordinate degli alleati USA: l’Unione Europea ha già annunciato controdazi su prodotti agroalimentari e tecnologici americani.

Ma questi dazi chi li paga realmente

1. I consumatori americani:
Nel breve termine, il prezzo dei beni colpiti dai dazi aumenta. Questo effetto si trasmette a tutta la catena del valore, alimentando inflazione. Secondo uno studio della Brookings Institution, i nuovi dazi 2025 potrebbero causare un aumento del costo della vita per una famiglia media americana di circa 1.200 dollari all’anno.

2. Le imprese esportatrici nei Paesi colpiti:
In particolare la Cina, che vede penalizzati i suoi veicoli elettrici e componenti tecnologiche, ma anche il Messico (automotive e agroalimentare) e la Germania (macchinari e acciaio). Tuttavia, la risposta cinese è rapida: Pechino ha già annunciato investimenti straordinari per rafforzare i legami con Africa e Sud America, riducendo la dipendenza dal mercato USA.

3. Le economie emergenti:
Queste ultime rischiano di diventare “danni collaterali” della guerra commerciale, poiché si ritrovano stritolate tra due blocchi protezionisti, senza potere negoziale. Paesi africani o del Sud-est asiatico potrebbero subire volatilità nei prezzi delle materie prime e riduzione dell’accesso ai mercati.

I dazi 2025 hanno un impatto immediato su settori chiave: energia, automotive, semiconduttori. Aumentano i costi di produzione e logistica, e questo effetto a cascata rischia di generare una nuova fiammata inflazionistica a livello globale, proprio mentre le banche centrali si stavano muovendo verso una politica più accomodante.

Parallelamente, molte aziende accelerano il processo di reshoring o friendshoring, ovvero la rilocalizzazione delle produzioni in Paesi politicamente più vicini. Questo potrebbe aprire opportunità per economie come India, Brasile, Vietnam e, in parte, Italia.

Se nel 2018 la guerra commerciale era un braccio di ferro tra due superpotenze, nel 2025 si configura come uno scontro tra blocchi. Da un lato l’asse USA–UK–India–Giappone, dall’altro Cina–Russia–Iran e alcuni Paesi africani. L’Unione Europea si trova nel mezzo, oscillando tra alleanze economiche e pressioni politiche.

Questo scenario comporta rischi ma anche possibilità: l’eventuale crisi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), oggi in stallo, potrebbe spingere per una sua riforma. Allo stesso tempo, si aprono spazi per una nuova governance economica multipolare, più equa e meno centrata sui rapporti di forza.

Per l’Italia, la situazione è ambivalente. Le imprese esportatrici – soprattutto nel comparto meccanico e alimentare – potrebbero soffrire dei controdazi europei. Ma se il governo sarà capace di sfruttare il momento, ci sono margini per diventare hub manifatturiero nel Mediterraneo, attrarre investimenti e ridisegnare le catene di approvvigionamento in chiave locale e sostenibile.

La storia insegna che dalle crisi possono nascere cambiamenti profondi. I dazi di Trump 2025, per quanto discutibili, stanno costringendo il sistema internazionale a ripensare regole e alleanze. Gli Stati più lungimiranti – e le imprese più resilienti – non cercheranno solo di sopravvivere, ma di evolversi.

L’economia mondiale ha bisogno di nuove coordinate, fondate su sostenibilità, equità e cooperazione. E forse, nel mezzo di questo ritorno alla tensione commerciale, possiamo trovare il coraggio per scrivere un nuovo capitolo della globalizzazione. Uno in cui il costo del cambiamento non sia pagato solo dai più deboli.

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