Lo scorso 30 aprile (2025), Washington e Kiev hanno firmato una serie di accordi che, in cambio degli aiuti militari forniti all’Ucraina dal febbraio 2022, attribuiscono agli Stati Uniti diritti di estrazione delle risorse minerarie ucraine e inseriscono il Paese in un fondo congiunto di investimento per la ricostruzione post-bellica. L’assenza di garanzie di sicurezza concrete e le tensioni con Mosca affievoliscono tuttavia le speranze di una pace entro breve termine
Sono tre i documenti firmati dai rappresentanti di Ucraina e Stati Uniti nell’ambito di un’intesa complessiva sui minerali critici a fine aprile scorso, dopo una trattativa durata mesi e costata a Kiev una parziale umiliazione pubblica nello studio ovale divenuta celebre a livello mondiale.
In cambio degli ingenti aiuti militari concessi da Washington dal febbraio 2022, l’accordo prevede che gli Stati Uniti detengano diritti di estrazione sulle risorse minerarie strategiche ucraine tramite specifici investimenti. Sarà però Kiev ad avere l’ultima parola su ciò che verrà estratto, nonché a mantenere il totale controllo sulla proprietà del sottosuolo.
Al contempo, la futura assistenza militare all’Ucraina verrà intesa come parte dei finanziamenti statunitensi che confluiranno in un fondo di investimento congiunto ad hoc destinato alle risorse naturali del Paese e alla ricostruzione post-bellica, dando così un significato politico all’intesa raggiunta dalle due parti.
Di fatto, Washington e Kiev concordano sull’uso di un linguaggio di ferma condanna alla Russia, indicata esplicitamente come Stato aggressore, confermando pertanto il superamento delle precedenti tensioni emerse nello studio ovale e la definitiva presa di distanza del Presidente Trump dalle accuse mosse a Zelenskij circa la sua corresponsabilità nello scoppio della guerra.
In termini di garanzie di sicurezza – questione di fondamentale importanza per l’eventuale firma di una pace con la Russia da parte dell’Ucraina – l’accordo sui minerali strategici si limita a fornire rassicurazioni circa una possibile e futura integrazione di Kiev nell’Unione Europea. Tuttavia, le questioni aperte restano molteplici.
Anzitutto, in confronto alle quantità di terre rare presenti nel sottosuolo della Groenlandia – altro oggetto delle mire strategiche del Presidente Trump – l’Ucraina non dispone verosimilmente di altrettanti ingenti volumi. Sono infatti necessari investimenti in studi di fattibilità e mappature del terreno per comprendere quali siano le effettive disponibilità del territorio ucraino, così come è necessario considerare che la maggior parte delle risorse si trovano all’interno dei territori momentaneamente occupati dalla Russia, la quale in un eventuale scenario di cristallizzazione dello status quo potrebbe beneficiare delle rendite derivanti dall’estrazione a danno dell’Ucraina.
La mancanza di dati precisi relativi ai minerali critici presenti in Ucraina si traduce automaticamente in un elemento di incertezza per Washington, che non potrà contare solo sugli accordi firmati a fine aprile per garantirsi una fornitura stabile e continuativa di terre rare da impiegare nell’industria della difesa, nel settore tecnologico ed eventualmente per la realizzazione di batterie utili alla transizione energetica. Una questione spinosa se si considera che circa l’80% di terre rare si trova in Cina, principale avversario politico ed economico degli Stati Uniti di Trump, con cui si sta giocando la partita per il dominio tecnologico globale a suon di dazi e pacchetti di sanzioni.
Al contempo, l’intesa sulle terre rare non pone argine alle numerose divergenze che permangono tra Trump e Zelenskij a proposito dell’approccio da adottare durante i negoziati per la pace con la Russia. Se alla vigilia della parata del nove maggio a Mosca il Presidente Putin parla di riconciliazione ma non azzarda ad alcun passo indietro sulla posizione ufficiale del Cremlino, che intende ancora de-nazificare l’Ucraina e rivendicare la propria sovranità de iure e de facto su Crimea, Donbas e ulteriori aree occupate, Zelenskij spera ancora – in maniera velleitaria – di entrare a far parte di un sistema di sicurezza occidentale che funga da disincentivo per eventuali nuove e future invasioni russe.
Garanzie che al momento non sembrano essere sul tavolo dei negoziati, ancora fortemente legati al cosiddetto “Piano Kellogg” che di fatto porrebbe fine all’integrità territoriale dell’Ucraina così come si configurava fino al 2014 e garantirebbe a Putin l’accoglimento della (quasi) totalità delle sue richieste per porre fine alla guerra. Un approccio inaccettabile per Kiev, che tuttavia permane in un triangolo negoziale in cui l’unica alternativa rimasta su cui forzare la mano sembra essere l’adesione alle istituzioni di Bruxelles.