Nel summit congiunto che si è tenuto a Londra tra il primo ministro britannico Starmer, la presidente della Commissione europea Von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Costa, è stato dato l’annuncio di un accordo che cambia i rapporti tra le due sponde della Manica.
Non si tratta di un rientro del Regno Unito nell’Unione Europa e neanche di una ricomposizione della frattura creatasi in questi dieci anni, dal 2016 per l’esattezza, tra Londra e l’Europa, ma certamente è una svolta che vede la fine di una stagione di attriti, iniziata con il referendum appunto del 2016 con il governo londinese del primo ministro Cameron.
Gli errori non sono mancati, commessi da ambo le parti, sia dai governi inglesi che da quelli europei e forse, a ben guardare, il premier Starmer ha parlato di un “reset”, rischiando molto con il passo compiuto, ma avendo ben presente le opportunità politiche ed economiche, non da poco, che si apriranno con il miglioramento dei rapporti tra Londra e l’Europa.
E’ un riavvicinamento che si intuiva già dalla vittoria di Starmer nel luglio del 2024, ma che ha bruciato i tempi dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca e i cambiamenti epocali che ne sono seguiti e che hanno costretto Londra, Bruxelles, Parigi e Roma ad accelerare tempi e modalità di una nuova “partnership“. Il disordine mondiale ha costretto tutti a superare i piccoli interessi, come la disputa con Parigi sulla pesca nelle acque della Manica e l’accordo più che rivoluzionario appare politico, anzi, fortemente politico, perché c’è la volontà di riallacciare i rapporti con l’Europa e, soprattutto, di cooperare nella Difesa e Sicurezza.
Sarà necessario far accettare l’accordo agli inglesi e Starmer avrà il suo da fare perché, anche se i più recenti sondaggi rilevano che solo il 30% degli elettori è ancora favorevole alla Brexit mentre per il 55% il referendum del 2016 resta un errore, l’opposizione è già sul sentiero di guerra contro l’accordo e il 39% ritiene abbastanza probabile un rientro dell’Inghilterra nella UE nei prossimi vent’anni.
L’uomo simbolo del distacco del Regno Unito dalla Unione Europea, Nigel Farage, e la sua formazione politica, Reform DK, populista e nemica dell’Europa, sono già all’attacco. Il cammino di Starmer, per le ragioni sinora addotte, si presenta difficile e insidioso: da un lato l’apertura a Bruxelles, dall’altra il pericolo che la destra populista di Farage aumenti nei sondaggi lo spinge ad essere durissimo contro l’immigrazione.
A ben vedere la Brexit non ha sortito gli effetti positivi sperati, anzi, la fase successiva al referendum è stata gestita su una forte spinta populista e nella confusione più totale, confermando però quello che i politologi hanno sempre pensato, e cioè che il populismo nasce e prolifera lì dove i problemi della popolazione non sono risolti e si fatica a mantenere quanto promesso in campagna elettorale dai suoi accoliti.
La svolta conferma, ancora una volta, la capacità di attrazione della UE, grande mercato economico, nel quale per adesso Londra non rientra, certezza del diritto, robusto soft-power e voglia di cambiamenti.
La nuova realtà mondiale spinge sia Londra che Bruxelles a svolgere un ruolo maggiore e più risoluto nel mondo; certo altri passi vanno fatti a cominciare dalla Difesa dove Londra può dare un importante contributo alla sicurezza del continente europeo.
L’apertura reciproca può portare opportunità non solo nel campo della Difesa, ma anche dal punto di vista economico e finanziario, soprattutto meno rivalità e astio, come dimostrano i migliorati rapporti di Londra con il francese Macron, il nuovo cancelliere tedesco Merz e la premier Meloni.