Da ex repubblica socialista sovietica a membro dell’Unione Europea con la più forte impronta politica nazionalista, l’Ungheria di Viktor Orbán ricopre una posizione geopolitica strategica nel Vecchio continente, fondamentale per interpretare le future architetture dei rapporti tra Est ed Ovest. Ne abbiamo discusso con Antonello Folco Biagini, professore emerito e già Ordinario di Storia dell’Europa Orientale alla Sapienza Università di Roma
di Valentina Chabert
L’Ungheria di Orbán. Un tema geopolitico di stringente attualità. Ne abbiamo discusso in una intervista con Antonello Folco Biagini Professore emerito già Ordinario di Storia dell’Europa Orientale alla Sapienza Università di Roma. Di recente anche Rettore dell’Università telematica Unitema Sapienza.
Professore, Lei che ha scritto un libro sulla storia dell’Ungheria e ottenuto riconoscimenti dalle istituzioni ungheresi, quali sono a suo avviso le ragioni interne del successo politico cosi duraturo di Viktor Orbán nello scenario ungherese?
Ovviamente gli elementi sono molteplici, ma se ne possono individuare due fondamentali: la politica attenta agli “interessi nazionali” e il forte richiamo alle radici storiche e culturali – dunque alla identità – che hanno caratterizzato la storia degli ungheresi stanziatesi nel bacino dei Carpazi alla fine del IX secolo.
La cultura politica di Orbán si forma all’interno del Partito Fidesz, un partito con forti connotazioni democratiche e liberali, che nel 1998 ottiene la vittoria alle elezioni parlamentari in una situazione economica e sociale pesante, determinata – a partire dal 1990 – dalla caduta del regime comunista e dalla necessità di traghettare il sistema economico-finanziario verso l’economia di mercato, dopo il mezzo secolo di economia statale. Sia gli Stati Uniti che l’Europa non intervengono con un progetto organico, come era stato il piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale.
Nella generale euforia per la fine della guerra fredda e con l’idea – del tutto infondata – della “fine della storia” (rimando qui a Francis Fukujama) grazie al successo dei sistemi liberali, la transizione dall’economia pianificata a quella di mercato avrebbero risolto in maniera quasi automatica quella riconversione che invece generava una drammatica crisi sociale in tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale dove aveva imperato l’URSS. In Ungheria, la transizione – pure con governi liberali (Antall) – veniva gestita in massima parte da elementi del precedente regime con notevole disappunto da parte di una opinione pubblica che nelle privatizzazioni vedeva un indebito arricchimento.
Il disagio economico e sociale ha prodotto una instabilità alla quale il Partito di Orbán pone rimedio proponendo un forte recupero dell’identità nazionale per evitare che l’economia ungherese diventasse preda di un capitalismo internazionale o degli speculatori interni. Alla base dell’elemento nazionale si inserisce il forte richiamo alle radici cristiane del popolo ungherese, convertitosi al cristianesimo nel IX secolo con il re Stefano proclamato santo da Gregorio VII.
Un messaggio così efficace porta Fidsez ad ottenere il 53% dei voti nelle elezioni del 2010, mantenuti e aumentati nelle successive competizioni elettorali. Un consenso così esteso permette sostanziali riforme di tipo legislativo e costituzionale (la Costituzione si chiama oggi Legge Fondamentale) che consentono all’esecutivo di limitare l’autonomia degli altri poteri (legislativo e giudiziario). Unendo insieme tradizione cristiana e nazionalismo identitario, il leader ungherese ha pubblicamente teorizzato la “democrazia illiberale” come opposizione alla globalizzazione e alla società aperta.
Come si posiziona attualmente l’Ungheria all’interno del gruppo di Visegrad?
L’implosione dell’Unione sovietica e il progressivo ritorno dei Paesi satelliti alle forme di democrazia parlamentare e di economia di mercato pone alle classi dirigenti della Cecoslovacchia (oggi Cechia e Slovacchia), Polonia e Ungheria, la necessità di stabilire un accordo collaborazione in quella parte d’Europa non più governata dalla comune appartenenza al blocco sovietico e al Patto di Varsavia. La fine dei regimi comunisti, vissuta come un “ritorno” in Europa, non avrebbe dovuto riaprire le antiche questioni (territoriali e non solo) che avevano caratterizzato il ventennio tra le due guerre mondiali, spesso frutto di un “nazionalismo militante”.
L’obiettivo fondamentale era quello di avvicinarsi alla CEE (poi CE, 7 dicembre 1992 e UE, 13 dicembre 2007) e alla NATO come garanzia politico-militare e di sviluppo economico.
Il 15 febbraio 1991 venne firmato il Trattato con il quale Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria si impegnavano a rafforzare i principi di consultazione e cooperazione nell’ambito della politica estera, dell’economia, delle infrastrutture, dell’energia e dei diritti delle minoranze. Questi ultimi, infatti, avrebbero potuto far riaffiorare sentimenti e ferite mai sanate se si considerano le numerose variazioni di confini nel corso dei secoli. Si può, oggi, affermare quanto l’esistenza di tale Trattato e tutte le iniziative ad esso correlate abbiano favorito e agevolato quel “ritorno” in Europa (e nell’Occidente), sperato nei lunghi anni delle dittature comuniste.
Lo stesso conflitto russo-ucraino in atto, se pur ha creato delle diverse interpretazioni sull’atteggiamento da assumere nei confronti della Russia, non ha inficiato quegli accordi. La posizione assunta dai Orbán, decisamente critico nei confronti del sostegno incondizionato all’Ucraina, si sta allargando ad altri Paesi come la Slovacchia, la Romania (dove il candidato critico nei confronti dell’UE ha mancato di poco il successo), la Polonia (si vedano i risultati delle recenti elezioni di fine giugno) ma anche all’opinione pubblica di altri Paesi come la Francia e la Germania.
Quale rapporto politico intercorre tra Orbán e l’Italia? Come si riflette all’interno dell’Unione Europea?
In generale e storicamente i rapporti tra i due Paesi, i due popoli e le due culture sono stati sempre di grande sintonia, condivisione e rispetto, a esclusione della tragica parentesi della prima guerra mondiale dove gli ungheresi, giova ricordarlo, furono trascinati dal governo imperiale di Vienna. Gli ungheresi hanno partecipato alle lotte per il Risorgimento italiano, l’Ungheria aderì al progetto italiano di revisione dei trattati di pace scaturiti dalla Conferenza della Pace di Versailles, ungheresi e italiani hanno combattuto insieme nella seconda guerra mondiale (particolarmente sul fronte del Don), l’Italia ha accolto con generosità coloro che fuggivano dalle repressioni comuniste dopo la fallita rivoluzione del 1956. Non mi sembra ci siano variazioni in atto nel rapporto diretto, mentre qualche divergenza si è manifestata in ambito europeo sia quando Fratelli d’Italia ha votato per la rielezione a presidente della Commissione Ursula von der Leyen che nell’approvazione del cosi detto piano di riarmo, che però non è ancora approdato all’approvazione del Parlamento europeo.
Crede che in Ungheria possa un giorno avvenire una “Brexit” o, al contrario, l’Ungheria possa contribuire a modificare il modo in cui l’Europa percepisce sé stessa? In altre parole, Orbán ha un’alternativa all’Europa o l’alternativa è Unione Europea?
Nessuno di noi può prevedere con certezza quali saranno gli sviluppi di una crisi che ha investito i rapporti internazionali in presenza di due conflitti. Al momento malgrado alcuni segni, si è ancora ben lontani da trattative risolutive.
Si deve poi aggiungere che, ad esclusione dei Paesi BRICS, non esistono, attualmente, progetti per ricostruire un sistema internazionale idoneo a garantire l’equilibrio. Mi sento di escludere una “Brexit” da parte dell’Ungheria e non solo per i pessimi risultati economici conseguiti dalla Gran Bretagna – che però all’epoca riteneva di poter contare sulla stretta alleanza con gli USA – ma per il fatto che non mi sembra esistano alternative all’UE. Tuttavia, va detto che, pure in presenza di un’opinione pubblica sempre più delusa dalle mancate realizzazioni politiche, economiche e sociali, l’Unione Europea rimane una realtà imprescindibile per i pesi europei ma anche per l’equilibrio internazionale.
L’Ungheria ha un rapporto storicamente complesso con la Russia. Come mai la leadership di Orbán e il paese sono considerati tra gli Stati europei più vicini alla Russia di Putin? Come si colloca la memoria del ’56, durante il quale l’Ungheria – pur all’interno del blocco sovietico socialista – ha subíto una grave violazione della propria sovranità territoriale? Non dovrebbe essere l’Ungheria il paese più traumatizzato dalla relazione passata con la Russia? Come interpreta tale rovesciamento?
La complessità del rapporto è nata con l’Unione sovietica e non con la Russia nella sua configurazione zarista e post sovietica. Già nel 1919 il tentativo comunista di Béla Kun (Repubblica dei Consigli, 21 marzo 1919 – 1 agosto 1919) aveva dimostrato l’opposizione degli ungheresi verso il “modello” bolscevico. Con la fine della seconda guerra mondiale e gli accordi di Yalta, l’Ungheria finisce – suo malgrado – sotto l’egemonia sovietica così mal sopportata come dimostrano i noti fatti del 1956 quindi utilizzerei più correttamente la definizione di antisovietismo e anticomunismo.
Ragionevolmente l’attuale posizione dell’Ungheria non può essere definita come filorussa mentre risponde – a mio giudizio – alla necessaria prudenza che tutti i governanti dovrebbero avere, ma non hanno, nei confronti di una guerra alla Russia. Un conflitto armato tra Europa e Russia esporrebbe il territorio ungherese – ma anche quello polacco e quello baltico – ad essere in prima linea ben oltre l’apporto delle pur moderne tecnologie applicate ai sistemi d’arma. Riferirei dunque tale politica a un atteggiamento prudente finalizzato ad evitare, o a esasperare, un conflitto i cui esiti sarebbero comunque incerti.
Da ultimo, l’Ungheria ha recentemente rafforzato la propria partnership strategica con il Caucaso Meridionale, in particolare con l’Azerbaigian, anche attraverso un ambizioso progetto di posa di cavi sottomarini sui fondali del Mar Nero. Come interpreta questo tentativo di Orbán di posizionarsi quale primo interlocutore strategico dell’Est Europa verso il Caucaso? Quali implicazioni potrebbero derivarne?
L’attivismo politico per allargare le possibilità di carattere industriale con evidenti ricadute sull’economia rientra nello spirito di tutela dell’interesse nazionale al quale ho già fatto cenno all’inizio. Gli ungheresi sono un popolo ingegnoso ma il loro territorio è privo di materie prime (fonti di energia, terre rare ecc.) e dunque, in presenza di una inevitabile rarefazione degli approvvigionamenti da parte della Russia, si tratta anche di una scelta obbligata. Se a questo aggiungiamo che l’area di cui stiamo parlando è molto attiva sul piano economico, la politica di Orban risulta comprensibile e si lega anche alle normali ambizioni che un leader può mettere in atto nella cura di progetti positivi per la propria nazione. Non vedo implicazioni negative, considerata anche una certa inerzia dell’UE a programmare una politica estera e una politica economica comuni.