Alex Mazzeo era un pilota professionista. Dopo aver scoperto una malattia neurodegenerativa che lo ha costretto ad abbandonare la sua passione per il volo, la riabilitazione lo ha portato ad avvicinarsi allo sport. Oggi è un campione di nuoto paralimpico, con una storia da raccontare di profonda tenacia, coraggio e accettazione.
A cura di Valentina Chabert
Alex Mazzeo era un pilota professionista con la passione per il paracadutismo. Poi la scoperta di una malattia neurodegenerativa al midollo osseo: una vita da reinventare, un corpo da imparare nuovamente a conoscere e una passione, il nuoto, che a poco a poco gli ha permesso di ritrovare la forza per accettarsi. Oggi è campione italiano di nuoto paralimpico, e lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua storia.
Prima della malattia, ha svolto per anni la professione di pilota. Come si è avvicinato al mondo dell’aviazione? Che cosa la ha appassionato di più?
Nasco nella generazione del film Top Gun: ero ancora un bambino, e il mio sogno era quello di diventare un pilota quando sarei diventato grande. All’inizio, mia mamma aveva preso questo mio desiderio un po’ alla leggera, ma in realtà al raggiungimento della maggiore età e subito dopo il servizio militare iniziai subito a fare corsi di pilotaggio presso varie scuole di volo in Italia, e così iniziai a volare. Nel frattempo, nell’attesa di diventare pilota e per poter rimanere in aria, mi lanciavo con il paracadute. Ho praticato per altri 15 anni il paracadutismo come sport, e – diventato pilota – mi sono trovato nella condizione di fare entrambe le cose nonostante non siano poi così compatibili: per un pilota, lanciarsi da un aereo che funziona è qualcosa di inconcepibile. In realtà, per me tutto ciò che mi faceva stare in alta quota mi faceva stare bene: il volo era la mia vita. A 23 anni avevo già conseguito il brevetto da pilota di linea, iniziando così la mia carriera lavorativa.
Come ha scoperto la malattia e come ha affrontato un momento di cambiamento così delicato?
In quanto piloti civili, siamo soggetti a visite mediche periodiche molto stringenti, serie e attente, che svolgiamo una volta l’anno presso gli istituti di medicina legale dell’Aeronautica Militare. Circa 7-8 anni fa, ho iniziato ad avvertire dei fastidi al braccio e alla colonna vertebrale. Non si pensa inizialmente al peggio: pensi se dovessimo preoccuparci per ogni mal di schiena! Ero molto controllato sotto il profilo medico, dunque non avevo dubbi che sarebbe passato con il tempo. Tuttavia, iniziai comunque a fare alcune visite specialistiche, che mi tranquillizzarono anche attraverso palliativi farmacologici attribuendo la stanchezza alla mia professione. Nulla faceva presagire ciò che poi è arrivato.
Il tempo passava, i fastidi aumentavano: è qualcosa che non volevo accettare, ma avevo comunque la consapevolezza che – facendo il pilota – qualcosa non andava. Facevo anche l’istruttore di volo, e quando si è da soli su un aereo con un allievo non ci si può permettere di non essere performanti al 100%. Dunque, ho rifatto alcuni approfondimenti, ed iniziò ad emergere una problematica al midollo osseo che però non fu una diagnosi immediata. Non c’è un esame specifico che diagnostica la mia malattia; dunque, iniziò un percorso durato circa un anno di visite specialistiche in ospedali italiani ed europei per collezionare pareri che convergano su una diagnosi. Il risultato fu la scoperta di una malattia neurodegenerativa al midollo osseo, dovuta a cause ignote.
Il primo pensiero fu dedicato al volo: come potevo volare con una problematica così seria? Poterlo fare sarebbe diventato impossibile, e può capire come ci si sente dopo anni di sacrifici personali, familiari, economici per fare ciò che hai sempre sognato – ed esserci riuscito tra l’altro – per poi vedere tutto svanire a causa di una malattia.
A cosa le è costato di più rinunciare, e cosa invece la malattia le ha permesso di guardare sotto una luce diversa?
La rinuncia più grande – non per essere ripetitivo – è volare o lanciarmi con il paracadute. Non si tratta per me di una soggezione effimera: è chiaro che si può vivere lo stesso senza praticare paracadutismo. Farlo perché il corpo dice che non è più possibile farlo è un’altra cosa. Vivevo 12 ore al giorno per aria, se non ero in aria ero a fare lezioni di volo…insomma, la mia vita era dedicata a questo, e non poter più volare è stato il disagio più grave della malattia.
Oltre a volare, non posso più fare tantissime altre cose: la malattia mi ha creato una paresi al lato destro, anche se con un intervento eseguito all’estero e le terapie ho recuperato buona parte. Di conseguenza, tutto ciò che concerne il discorso fisico mi ha portato a dover eliminare numerose attività che prima svolgevo con piacere.
Al contrario, dopo la malattia ho imparato e continuo ad imparare ogni giorno a vedere la parte buona di quello che è rimasto. Paradossalmente, oggi conduco una vita quasi perfetta. Esternamente comprendo che è difficile capire cosa c’è di perfetto nel fare terapie, girare per ospedali, e dover continuamente fare delle rinunce. Però ho imparato a vedere “il bicchiere mezzo pieno”: sono qui, ho una famiglia che mi sta vicino, ho una moglie splendida, ho tanti amici, e sono riuscito a trovare il mio spazio nel mondo attraverso lo sport. Sono riuscito a vedere la vita sotto una luce diversa, da un’altra prospettiva. E per quanto strana sia, è comunque bellissima.
C’è un giorno, un ricordo o un momento passato che le piacerebbe rivivere? Qual è uno dei suoi ricordi (anche legati alla sua professione) a cui è maggiormente legato?
Sicuramente sì: il volo da solista. Per un pilota, il primo volo che compi da solo non si dimentica nemmeno dopo decenni. Nel mio caso, è un’esperienza meravigliosa ma preferisco non ricordare tutto ciò che è stato. Oggi non parlo più di aerei, odio addirittura prenderli e preferisco prendere il treno. Nonostante l’abbia metabolizzata, è sempre una sofferenza: ti siedi sull’aereo da passeggero ma vorresti stare avanti.
Parliamo di sport e di presente. Come si è avvicinato a questo mondo e soprattutto perché il nuoto? Che cosa l’ha spinta poi a percorrere la strada dell’agonismo?
Circa 4 anni fa sono stato sottoposto ad un delicatissimo intervento chirurgico al midollo che ho eseguito all’estero. Si era reso necessario perché la malattia stava progredendo in modo eccessivamente rapido, almeno per rallentare il processo. Tuttavia, come tutti gli interventi chirurgici, non sono mancati strascichi devastanti: mi hanno operato al midollo, mi hanno “disconnesso” e poi ricollegato, dunque quando ho iniziato questa nuova vita ho dovuto imparare tutto da zero: a camminare, a muovermi, ad ascoltare gli impulsi che davo ma che arrivavano in ritardo. In questo panorama entra la riabilitazione fisica e il nuoto. Non potevo correre o fare palestra, ma dovevo fare nuoto per rinforzare e riattivare la mobilità. Mi butto in piscina, e paradossalmente è stato il nuoto a farmi rendere conto della mia nuova condizione di vita. Ricordo che entrai in vasca, iniziai a nuotare come ero abituato, ma il lato destro del corpo non rispondeva, e dopo quattro bracciate andai a sbattere sulla corsia perché la spinta era asimmetrica. Questo mi diede molto da pensare. Ci riprovai, riandai a sbattere.
Il nuoto è stato in quel momento la cosa che più mi ha fatto rendere conto della mia nuova condizione: per percorrere la vasca ci misi circa 5-6 minuti, facevo un tratto e mi fermavo, è stato parecchio frustrante. Quando però finii l’allenamento in cui coprii poco più di due vasche, ero davanti ad un bivio: o accettare la mia nuova condizione, o cogliere una nuova opportunità. L’indomani andai di nuovo in acqua, e lo feci tutti i giorni, fino a quando venni notato da un tecnico della federazione del nuoto paralimpico, che con un occhio tecnico mi disse di provare ad entrare in un mondo che disconoscevo del tutto. Presi questa sfida e la feci mia, iniziando questo percorso.
Che cosa rappresenta per lei oggi lo sport?
Rappresenta una motivazione importante per andare avanti ogni giorno, per riuscire a combattere contro il mio corpo e riuscire ad accettarlo, per non rimanere a casa quando il corpo mi dice di non farcela a buttarsi in piscina. È un obiettivo che mi prefiggo per cercare di guardare tutto sotto un altro punto di vista, e ad oggi non potrei vivere senza l’acqua, l’elemento che mi fa sentire più “normale” poiché la gravità non pesa sul corpo: per quanto io non nuoti come un atleta normodotato, ho imparato ad adattarmi e nuoto lo stesso.
E lo fa anche molto bene: ad oggi, vanta una carriera in ascesa, numerose medaglie e molteplici titoli, tra cui quello di campione italiano paralimpico. Se lo sarebbe mai immaginato? Che cosa rappresentano per lei questi traguardi?
No, e lo dico con la massima onestà. Sono entrato nel mondo del nuoto tre anni fa, ho già 43 anni e conosco ragazzi meravigliosi nel mondo paralimpico che hanno una ventina d’anni in meno di me, quindi quando mi sono buttato in questo mondo non l’ho fatto con la speranza di vincere. Poi però l’impegno ha pagato, e quando sono arrivate le prime medaglie ho compreso che avevo ancora qualcosa da dare. Quest’anno ho ottenuto il titolo di campione italiano master di nuoto paralimpico – non mi aspettavo di prendere la medaglia d’oro; a febbraio di quest’anno ho ottenuto un argento agli assoluti invernali, un’altra bellissima competizione internazionale; e la prossima settimana avrò gli assoluti estivi a Napoli, dove mi metterò in gioco con diciottenni e ventenni.
Quanto allenamento e costanza sono necessari per ottenere questi risultati? Come valuta il percorso fatto per raggiungerli? È un percorso fisico o mentale in cui è richiesta tanta forza di volontà anche quando il corpo dice qualcos’altro?
Decisamente entrambi. Non può esserci l’uno senza il supporto dell’altro. È essenziale avere un allenamento e una preparazione fisica eccellente, ci si allena tutti i giorni in piscina. A livello psicologico devi essere altrettanto supportato e motivato: il tuo corpo è comunque in una condizione che non ama mettersi in acqua o spingere per 3-4 km ogni giorno. È in sofferenza, e preferirebbe che fossi più tranquillo. Però l’obiettivo delle gare e quello di cercare di fare sempre meglio aiutano a superare tutto questo dal punto di vista psicologico. Gli specialisti ci affiancano sempre: non dimentichiamoci che siamo comunque atleti paralimpici, oltre al nuoto combattiamo con la disabilità che c’è e si fa sentire ogni giorno. Io poi sono molto supportato anche da mia moglie, che è la mia prima fan e mi segue ovunque. È colei che mi dice sempre di non mollare, e a lei devo tantissimo.
Quale consiglio si sentirebbe di dare a chi si trova ad affrontare una situazione simile alla sua?
Non vorrei cadere in frasi fatte o slogan motivazionali tipo “non mollare mai” e “se cadi ti rialzi”, perché fin quando non lo provi sulla tua pelle non lo puoi comprendere. Non sono una persona diversa dagli altri: dico sempre che se ce l’ho fatta io, ce la può fare chiunque. Io ho trovato una grandissima forza per potermi risollevare nella fede e nell’amore dei miei famigliari e di mia moglie. Sono i due perni fondamentali della mia esistenza, senza i quali sarei in una fase diversa da questa. Quello che mi permetto di poter consigliare a chi sta attraversando un momento difficile è di darsi un obiettivo nella vita: lo sport sicuramente è nobile, è pulito, dunque anche questo è un consiglio. Un obiettivo che, svegliandosi la mattina, permetta di avere qualcosa davanti da andare a raggiungere. Quando il corpo dice “no”, bisogna rispondergli che la volontà è più forte della malattia, bisogna attaccarsi ai valori che il mondo ci dà – siano lo sport, la fede o l’amore, io li ho trovati in questo e lo consiglierei a chiunque. Sicuramente, non bisogna piangersi addosso perché non porta da nessuna parte, ma prendere da ciò che la vita ci dà come un’opportunità: la vita vista da un’altra prospettiva forse è anche più bella di quella che vivevamo prima.
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