Intervista al dott. Edison Barbieri, Oceanografo specializzato in oceanografia biologica e geologica.presso l’Istituto della Pesca, Centro Avanzato di Ricerca e Sviluppo della Pesca Marittima, Centro di Ricerca della Costa Meridionale, Cananeia, San Paolo, Brasile,membro della commissione internazionale EcoOne Ecologically United
Dott. Edison, lei afferma che la povertà è una forma di inquinamento. Non è un’esagerazione?
Assolutamente no. Non uso la parola “inquinamento” come metafora, ma come realtà concreta. La povertà genera condizioni ambientali degradate, altera gli ecosistemi, moltiplica comportamenti di sopravvivenza che – per necessità, non per scelta – mettono a rischio risorse naturali già fragili. Pensiamo alla deforestazione per produrre carbone in Africa o alla pesca eccessiva in Asia: non sono crimini ecologici, ma strategie di sopravvivenza in assenza di alternative.
Qual è la connessione tra povertà e ambiente?
È una connessione radicale. La povertà non solo nasce in contesti ambientali vulnerabili, ma contribuisce ad accentuarne la fragilità. Nelle periferie urbane, nelle foreste tropicali, lungo le coste o nelle zone rurali marginalizzate, le persone povere vivono un doppio esilio: sociale e ambientale. Sono escluse dai diritti e al tempo stesso esposte agli impatti più gravi del degrado.
Eppure si parla spesso di povertà come problema economico, e di ambiente come tema “green”. Perché questa separazione?
Perché fa comodo. È più facile puntare il dito contro il contadino che taglia alberi per coltivare, che contro un sistema globale che ha abbandonato intere popolazioni. Le élite politiche e ambientali spesso trattano i due temi come compartimenti stagni. Ma non c’è foresta protetta senza una comunità protetta. Non c’è acqua pulita senza diritto all’acqua per tutti.
Ci fa qualche esempio concreto?
In America Latina, 172 milioni di persone vivono in povertà, molte delle quali in zone contaminate da attività estrattive illegali. In Asia, milioni abitano in insediamenti informali senza fognature, vicino a fiumi tossici. In Europa, oltre 90 milioni soffrono di povertà energetica, costretti a usare combustibili inquinanti per riscaldarsi. E tutto questo genera ulteriore pressione ambientale.
Qual è il rischio più grande?
Che si inneschi – o meglio, si perpetui – un circolo vizioso: la povertà genera degrado, il degrado alimenta altra povertà. E così via, fino al collasso. Non solo ambientale, ma sociale e umano. È un ciclo perverso che nessuna tecnologia, per quanto avanzata, potrà mai risolvere da sola.
Quindi qual è la via d’uscita?
Una nuova visione di civiltà. Un patto che unisca sostenibilità e giustizia sociale. Non possiamo chiedere a chi è escluso di sentirsi parte e difensore dell’ambiente. Dobbiamo prima includere. Le politiche ambientali devono diventare anche politiche sociali: proteggere le foreste significa proteggere chi ci vive, salvare i fiumi significa garantire acqua potabile, difendere il clima significa combattere le disuguaglianze.
C’è ancora tempo per invertire la rotta?
Sì, ma poco. La storia ci insegna che alcune crisi si possono invertire – pensiamo al risanamento del Tamigi o al Riachuelo in Argentina – ma ci ricorda anche che esiste una soglia oltre la quale non si torna indietro. Dobbiamo agire ora, con coraggio e visione. Come dice Edgar Morin: “Non esiste una via d’uscita ecologica senza una via d’uscita sociale.”
Un’ultima domanda: che cosa la muove, personalmente, in questa battaglia?
La convinzione che l’ambiente non si protegge solo con le leggi, ma con la cura. E nessuno può avere cura di qualcosa se prima non è stato curato. Restituire dignità alle persone è il primo, vero atto ecologico.