Quando la mente dimentica, la mia anima continua a scrivere…

di Krishan Chand Sethi

Ci sono scrittori che scrivono per ricordare, e ce ne sono altri che scrivono per elaborare. Io scrivo per sentire. Non sempre ricordo ciò che ho scritto in passato. Continuo semplicemente a scrivere. Proprio come respirare o sognare, non è qualcosa che faccio volontariamente per ricordare, ma qualcosa che faccio per lasciar andare. Scrivere diventa vivere. Il passato si trasforma in inchiostro, e la penna è l’anima. E anche quando perdo le mie stesse parole, sono le mie parole a ricordarsi di me. In un’epoca così ossessionata dal conservare fotografie archiviate nel cloud, ricordi trasformati in megabyte, traguardi esibiti per ottenere “mi piace”, c’è qualcosa di profondamente liberatorio nel disancorarsi. Non ricordare ogni parola che ho scritto non è una perdita; è un ritorno. Un ritorno al fatto che scrivere non è sempre trattenere, ma espirare. Quando scriviamo dall’esperienza, dal cuore, dal ritmo del momento, non scriviamo necessariamente per ricordare. Scriviamo per diventare.

L’anima che scrive senza aspettative
Scrivere senza ricordare non significa dimenticare. Significa lasciar andare. Significa avere fede che le parole destinate a restare, resteranno – non nei libri o nei diari, ma nella sostanza. Quando mi siedo a scrivere, non consulto i miei archivi. Non cerco di ripetere ciò che è già stato detto. Attingo al pozzo dentro di me, e ciò che emerge è sempre nuovo, come la prima pioggia su terra arida. In quei momenti, non sono uno scrittore. Sono un tramite. Le parole non provengono dalla mente calcolatrice ma dall’onestà emotiva. Non sono costruzioni artificiali; sono frasi viventi. Respirano, invecchiano, crescono proprio come me. Questo è un atto sacro. Un musicista improvvisa a occhi chiusi, sentendo ogni nota più che scrivendola. Io scrivo intuitivamente. Nessuna paura, solo flusso. Non si tratta di produzione. Si tratta di versare fuori. L’autenticità risiede lì.

Quando la memoria non è l’obiettivo
La memoria, per quanto forte, non è necessariamente l’alleata più affidabile delle arti creative. La memoria condiziona, struttura, ripete il passato. Ma se invece scrivere non avesse nulla a che fare con il ripetere, ma con l’inventare? Non con il conservare, ma con il dire? E se la voce più autentica che possediamo fosse quella che emerge quando la memoria viene messa a tacere? I grandi poeti lo sapevano. Mi è capitato di leggere potenti citazioni di Rainer Maria Rilke (mistico poeta del XX secolo), una delle quali recita: “Quando le parole si ricordano di me”, proprio sul tema della scrittura, della dimenticanza e del ricordo. “Lascia che tutto ti accada: la bellezza e il terrore. Continua ad andare avanti. Nessuna sensazione è definitiva.” In quei versi c’è il permesso di andare oltre il ricordo e di entrare nel sentimento grezzo e non filtrato. Lì vive la verità.

Il paradosso del dimenticare e dell’essere ricordati
Spesso inciampo in versi miei che non ricordo. Una poesia scritta anni fa, una frase sepolta in un vecchio quaderno. A volte, mi sorprende che quelle parole siano mie. Ma in quello stupore, rivedo una parte di me che avevo superato o abbandonato. Mi incontro nella mia scrittura, anche se non ricordo di averla creata. C’è un paradosso al centro di tutto ciò. Io dimentico ciò che dico, ma le parole non dimenticano me. Portano le mie impronte, il mio respiro, i miei pianti silenziosi e i miei canti non cantati. Sono lo specchio che ho creato inconsapevolmente, dove i miei sé passati mi vengono incontro senza giudizio.

Una libertà che pochi comprendono
La maggior parte delle persone teme il dimenticare. Temono di perdere ciò che hanno scritto, detto, creato. Invece, io ho scoperto una libertà silenziosa nel non trattenere la memoria delle mie parole. Quando le rileggo, sono libere dal sentimento di nostalgia o dal bisogno di avere ragione. Si presentano come pezzi autonomi, liberi dai turbamenti dell’ego attuale; piuttosto, sono manufatti d’emozione, frammenti di me stesso. Posso apprezzarli o criticarli, ma non tento di possederli. Perché non sono mai stati possedimenti. Erano doni da offrire.

Scrivere senza dover ricordare è vivere nel presente. È permettere al sé di crescere senza portare con sé il peso del passato. Questo non significa che il passato sia inutile. Significa soltanto che il significato non è intrappolato nella memoria. Il significato è ciò che le parole ancora sussurrano quando le incontriamo di nuovo. E c’è qui anche una lezione buddhista: l’arte del non attaccamento. Così come i monaci costruiscono mandala di sabbia elaborati per poi spazzarli via, anche noi dobbiamo lasciare andare le nostre parole una volta che hanno compiuto il loro effetto. La bellezza sta nel fare, non nel trattenere.

Un dialogo vivente con sé stessi
Dico spesso alle persone che scrivo per la mia anima, non per lo scaffale. Quando scrivo, non mi preparo per un pubblico. Sto avendo una conversazione con il me stesso che ancora non conosco. Ecco perché il processo significa più del prodotto. Che le parole siano ricordate o perse, pubblicate o tenute segrete, esse soddisfano lo scopo più profondo dell’espressione di sé. Questa conversazione mi ha salvato innumerevoli volte. Nei momenti di disperazione, la mia penna è stata la mia amica fidata. Nei momenti di gioia, è stata la mia celebrazione. E nei periodi di confusione, è stata la mia mappa. Anche quando dimentico ciò che ho scritto, ricordo la chiarezza o la purificazione che ne è seguita. A volte, i lettori citano versi che ho scritto, e io sorrido, perplesso. Non perché dubiti della bellezza di quelle frasi, ma perché semplicemente non le ricordo. Eppure, quando le sento pronunciare, ne riconosco il ritmo, l’essenza. È come sentire il proprio battito nel cuore di una canzone che non si sapeva di aver composto.

Echi che restano, anche quando non li ascolti più
C’è un aspetto sacro in tutto ciò. Forse le parole che dimentichiamo non sono perse, ma assimilate. Sono integrate nel nostro DNA emotivo. Come il profumo di un luogo visitato spesso, come il gusto di un cibo amato da bambini, le nostre parole restano. Potremmo non esserne consapevoli, ma influenzano il nostro tono, le nostre decisioni, le nostre verità. Il filosofo greco Eraclito, noto per la sua dottrina del cambiamento come essenza dell’universo, scrisse: “Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché non è lo stesso fiume e non è lo stesso uomo.” Ma lo stesso non si può dire della scrittura. Anche quando dimentico, lo scrittore che ero si riversa nello scrittore che sto diventando. Ogni poesia dimenticata, ogni paragrafo abbandonato, è come un seme sotterrato. Forse non crescerà mai nella stessa forma, ma la sua presenza sotto la superficie plasmerà la prossima fioritura.

Fidarsi del processo
Quando scriviamo con l’obiettivo di ricordare, rischiamo di perdere la gioia della spontaneità. Ma quando scriviamo fidandoci del momento, del messaggio, del misterioso funzionamento della creatività, otteniamo qualcosa di più ricco. Impariamo a lasciar andare. Lasciare andare non è arrendersi. È fare spazio. Spazio per nuove intuizioni, per emozioni non toccate, per lo sviluppo. Più dimentico ciò che ho scritto, più sono fresco per scrivere di nuovo. Ogni pagina bianca è come un nuovo foglio, libero da confronti o pesi. Ogni frase è una scoperta. Il celebre autore Jack Kerouac, famoso romanziere e poeta americano, credeva nel “primo pensiero, miglior pensiero.” Sconsigliava agli scrittori di modificare troppo, di dubitare. C’è qualcosa di onesto, persino sacro, nel credere alla prima bozza del cuore. Non ricordare ciò che abbiamo scritto può essere il modo dell’universo di assicurarci che cominciamo sempre da capo. È legato al mio ricordo di una camminata mattutina vicino al mare, che ha riempito i miei pensieri di “ossigeno inchiostrato” e si è trasformata in una poesia e un articolo impressionante.

La vera eredità non è nella frase, ma nella luce
Per coloro che temono che dimenticare possa cancellare la loro eredità, voglio proporre una prospettiva diversa. L’eredità non è una lista di frasi ricordate. È la fiamma che quelle frasi accendono negli altri. Puoi dimenticare le parole che hai scritto, ma se hanno aiutato qualcuno a guarire, a interrogarsi, a sentire o a sognare, allora hanno avuto successo. Anche se lo scrittore dimentica, il lettore può ricordare. E questo è sufficiente. A volte, più che sufficiente. Mi è capitato di leggere della straordinaria Maya Angelou, autrice, poetessa e attivista per i diritti civili americana, che scrisse: “La gente dimenticherà ciò che hai detto, ma non dimenticherà mai come l’hai fatta sentire.” Credo che lo stesso valga per la scrittura. La vitalità delle parole va oltre le parole stesse.

A 73 anni, sento che la memoria si affievolisce, ma quando rileggo i miei scritti, tutto riaffiora. Mi ricorda una mia frase: “Posso dimenticare le mie parole, ma so che le mie parole non dimenticheranno mai me.”

Conclusioni: lo scrittore come fiume
Alla fine, non sono il custode delle parole, ma il fiume attraverso cui scorrono. Non sono il loro proprietario, ma il loro canale. Entrano, escono. Alcune restano. Alcune ritornano. Alcune si perdono nel mare della memoria collettiva. Eppure, sono grato. Grato di poter scrivere. Grato che, anche quando dimentico, le mie parole si ricordano di me. Quindi, se sei uno scrittore che dimentica ciò che ha scritto, non temere. Non stai perdendo nulla. Stai semplicemente vivendo la realtà della scrittura: che non riguarda il ricordare il passato, ma il servire il presente. Perché, alla fine, le parole più belle non sono quelle che ricordiamo. Sono quelle che ci ricordano.

Dr. Sethi K.C. – Autore, Daman, India / Auckland, Nuova Zelanda

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