A Gaza ora è il turno dei cattolici: Israele ormai appare un Paese senza controllo morale. Va fermato
di Massimo Reina
Hanno colpito una chiesa cattolica nella Striscia di Gaza. Tre morti, tra cui una donna anziana di 84 anni che riceveva assistenza, una custode di 60 anni, e un altro ferito che non ce l’ha fatta. Nove i feriti, tra cui padre Romanelli, un francescano italiano.
Israele ha parlato di “errore di tiro”. Come se le bombe fossero lacrime di pioggia che cadono a caso. Come se una chiesa non fosse visibile persino dai satelliti.
Il problema, mi si perdoni il tono dimesso, non è solo in ciò che accade, ma in ciò che non accade. Nella totale assenza di sussulti da parte di chi dovrebbe — per vocazione, per ruolo o anche solo per istinto umano — alzare la voce.
Abbiamo visto la premier Meloni definire “inaccettabile l’attacco a civili”. Una frase che, letta in un editoriale, potrebbe bastare. Ma pronunciata da chi governa uno Stato sovrano, suona come una carezza al colpevole.
Il ministro Tajani ha “chiesto chiarimenti”. Chiedere chiarimenti a chi ti ha appena detto che ha sbagliato, è come chiedere a un ladro perché ha scassinato la porta.
Poi è intervenuto il Papa, ma non mi è sembrato un tono perentorio. Eppure l’aggressione degli israeiliani anche contro i cattolici, anche turisti, è ormai un fenomeno diffuso, perfino a Gerusalemme.
La verità è che non si tratta di un incidente isolato. Lo dice padre Ibrahim Faltas, lo sanno i religiosi e i civili che vivono a Gaza sotto le bombe, e lo sospettano — anche se non lo dicono — molti diplomatici occidentali.
Quello che si combatte nella Striscia non è una guerra: è una carneficina asimmetrica. È una lotta tra un esercito potentissimo e una popolazione chiusa come in una gabbia.
E quando in una guerra si cominciano a colpire le chiese, si è già superato da un pezzo il confine tra la guerra e la barbarie.
Ma l’Occidente, che predica la civiltà, tace. Tace per interesse, per viltà, o forse per quella forma di ipocrisia superiore che fiorisce tra le colonne doriche dei saloni diplomatici.
Eppure — e lo dico da laico — la chiesa è sempre stata il rifugio degli ultimi. In ogni epoca e sotto ogni cielo. Che fosse la Parigi del ’44, la Berlino del muro o il Libano delle bombe. Se si colpisce una chiesa, si colpisce un simbolo che va oltre la religione: si colpisce l’idea stessa di pietà.
Ho conosciuto soldati capaci di fermarsi davanti a un altare, di deporre l’arma per rispetto, non per fede. Perché lì dentro si prega, si piange, si spera.
Quando si arriva a colpire quelle mura, non resta più nulla da rispettare.
E allora, senza infingimenti, senza dottrine e senza ideologie, io mi limito a constatare — come un vecchio cronista che ha visto troppe guerre — che l’errore più grande non è stato il tiro.
È il silenzio che l’ha seguito.