SANTA MARIA DEL CARMINE: LA CHIESA DI ASSERGI DENTRO LE MURA DELL’AQUILA

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di Giuseppe Lalli

 Il legame sentimentale col passato

prepara e aiuta l’intelligenza storica,
condizione di ogni avanzamento civile,
e, soprattutto, assai ingentilisce gli animi.
Benedetto Croce

 

È a tutti noto che L’Aquila è una città di fondazione. Essa è nata per il concorso dei castelli del suo contado: quelli del territorio vestino e quelli del territorio amiternino. Ma non furono novantanove, che è numero simbolico, magico. In realtà essi furono non più di settanta. I principali tra di essi occuparono un posto loro assegnato (il “Locale”), nel quale ebbero una chiesa, una piazza, una fontana. Secondo un’originale caratteristica urbanistica, il castello d’origine, in qualche modo, si duplicava: esisteva dentro le mura cittadine senza cessare di esistere fuori di esse.

Tra questi castelli ci fu Assergi, che ebbe il suo Locale nel quarto di Santa Maria, dove la nuova chiesa, colà edificata nel tardo duecento, si chiamò, in omaggio a quella di provenienza, Santa Maria d’Assergi. Essa era, ed è, situata in fondo all’attuale Via del Carmine, che è, venendo idealmente da Piazza Regina Margherita, la seconda traversa che s’incontra a sinistra muovendo verso Corso Vittorio Emanuele II. Volendo andare, invece, sempre da Piazza Regina Margherita, verso Porta Castello, si arriva alla chiesa accedendo dalla prima traversa a destra, che si chiama, non a caso, Via Assergi.

Ma è ora che lo scrivente, nato e cresciuto ad Assergi, ceda la parola, come spesso gli capita di fare, a colui che per il passato ha illustrato, con rigore di storico e affetto di sacerdote, il paese, il suo santo, la sua chiesa: quel Nicola Tomei (1718-1792) che in una bella pagina della sua Dissertazione, dopo aver ricordato che «La principale Grancia della Chiesa di Assergi, e che di essa Matrice si può dire la filiana, fu la Chiesa detta ancor essa di S. Maria d’Assergi», e dopo aver egregiamente tratteggiato la cornice storica entro la quale avvenne la fondazione della città dell’Aquila e il concorso dei castelli, così scrive:

“la maggior parte de’ Castelli trasportò nell’Aquila colla miglior parte de’ Cittadini la Chiesa Parrocchiale col Parroco, e suoi Canonici, se ne aveva; lasciò nel Castello un Sostituto per la cura delle anime de’ Filiani colà restati. Il Castello d’Assergi a differenza degli altri molti non fece così. Edificò nell’Aquila la sua Chiesa, mandò i suoi Cittadini; ma volle che la Chiesa dentro l’Aquila fusse la subordinata, e quella che restava nel Castello la principale col Proposto, e Canonici. Del che forsi ne fu cagione, perché essendo questa sommamente frequentata per ragion di S. Franco morto in quel Secolo della fondazione dell’Aquila, non pareva di doversi avvilire col mandarne il Capitolo all’Aquila, e lasciarvi un Sostituto. Se pure non ne fu cagione, perché in quel tempo vi stavano ancora i Monaci, che nel medesimo Secolo XIII si può credere di esserne partiti. […] Fu dunque dal Popolo d’Assergi eretta la Chiesa nell’Aquila nel proprio locale assegnato, che ancor oggi si chiama il Locale d’Assergi nelle pubbliche scritture. Ebbe la piazza, e la fontana “.(1).

Il buon Tomei ci fa anche sapere che la cura delle anime fu affidata ad un componente del clero assergese, vale a dire a un membro del Capitolo della chiesa parrocchiale (che era composta da quattro sacerdoti oltre il preposto) o un sostituto di esso (2).

La chiesa, «anche topograficamente dominatrice dell’ampio spiazzo» formato sul retro delle case dei Camponeschi dell’attuale Corso Vittorio Emanuele, tanto da interloquire con la prestigiosa famiglia Franchi, alla quale concedeva nel 1506 l’acqua della fontana, apparteneva ad uno dei castelli, quello di Assergi, tra i più colpiti dalla costruzione del castello spagnolo,  tanto da vedersi, nel 1557, smozzicato il campanile perché ritenuto, alto e massiccio com’era, un intralcio ai tiri delle artiglierie provenienti dalla fortezza eventualmente diretti contro la popolazione turbolenta (3) (era stato questo il vero motivo del ridimensionamento e non la gelosia contro gli assergesi da parte «del Regio Castello di fresco edificato», come riferisce un po’ frivolamente  Emidio Mariani – 1770/1850 – ) (4).

Si deve a questa decadenza («estinti già tutti i Popolari d’Assergi dentro l’Aquila» (5)) se la chiesa cittadina sarà ceduta nel 1609, non potendo più ad essa provvedere il Capitolo e l’Università del castello pedemontano. L’introduzione dei Carmelitani all’Aquila è legata a questa circostanza e si identificherà con la cessione a detta congregazione religiosa da parte di Assergi sia della chiesa sia del sito attiguo su cui verrà realizzato il convento (6).

E se la realizzazione finale di questa operazione è da ascrivere al clima di fervida spiritualità popolare propiziato dall’azione del vescovo Gonzalo de Rueda (1605-1622) e di Baldassarre de’ Nardis (1575-1630), nel più generale quadro della riforma cattolica (7), si deve allo zelo di un altro pastore, Mariano de Racciaccaris (1579-1592), un minorita, la chiamata in città dei Carmelitani, che «con general parlamento del 1583 furono accettati in Aquila […] e fu a loro dato il permesso di edificare il Convento» (8). E si pervenne alla cessione.

Del contenuto dell’«instrumento rogato da Notar Alessandro Francantonio d’Assergi nell’anno 1609» ci dice qualcosa Tomei. Fra i patti c’era che la chiesa dovesse sempre chiamarsi Santa Maria d’Assergi (impegno che non sarà rispettato) e fosse lecito di scolpire in qualunque luogo della chiesa lo stemma del castello (9). Il contratto inoltre prevedeva rapporti tra la chiesa e gli assergesi (alla quale, evidentemente, si sentivano ancora sentimentalmente legati), e pertanto ogni anno due o tre frati carmelitani avevano il dovere di recarsi al paese ed offrire un cero del valore di una libbra nella festa di San Franco, con il diritto di tenere una predica e di essere ospitati gratuitamente anche nella festa dell’Assunta; così come pure il preposto o un canonico di Assergi, trovandosi in città, doveva poter essere ospitato nel convento carmelitano (10).

Tomei ci fa altresì sapere che

“colla fabrica del Convento fu occupata la piazza, l’acqua della fontana fu divisa parte dentro il Convento, e parte fuori, come si vede al giorno d’oggi. La cura dell’anime fu addossata alla Chiesa vicina di Tempera, che l’amministra, e dai Frati del Carmine fa sodisfare i pesi delle messe, e paga colla rendita de’ beni addetti a tali pesi, che dal dilei Capitolo si possiedono”. (11).

Insomma, per il prestigio di Assergi fu un brutto colpo. Fu a partire dai primi decenni del Seicento, con l’avvento dei carmelitani, che la chiesa, affiancata a sinistra dal convento, comincia ad ingrandirsi. Scrive al riguardo Orlando Antonini:

All’edificio dugentesco, i frati aggiunsero nel 1637 un coro ottagonale a volta, più alto della nave, che se ne trovò considerevolmente prolungata; di conseguenza, rialzarono pressoché del doppio le muraglie dell’involucro rettangolare, scandendole verticalmente, all’esterno, con una serie di finestrature e con snelli contrafforti in pietra per contenere le spinte della lunga volta a botte (12).

Il risultato di questi radicali rimaneggiamenti fu che la rinascimentale facciata in pietra concia, con i suoi due diseguali ordini, venne a costituire la parte inferiore della nuova fronte, salvo rimuovere il rosone, come appare a prima vista, sostituito da un finestrone al centro della parte rialzata (13). Riguardo alla facciata, oggi coperta dall’impalcatura richiesta dai lavori di ristrutturazione post terremoto, il portale riproduce in maniera quasi perfetta quello della chiesa madre assergese, del quale deve ritenersi contemporaneo, vale a dire realizzato nella prima metà del XV secolo. Le sole differenze degne di nota vanno ravvisate nel fogliame dei capitelli e nella diversa composizione del fregio decorativo dell’architrave, meno elaborati quelli aquilani (14).

 Ignazio Carlo Gavini (1867-1936), insigne architetto e raffinato storico dell’arte che ai Monumenti d’Abruzzo dedicò tanta parte della sua attività professionale, così scrive sulla chiesa: “insieme al quartiere di Aquila costruito dagli abitanti di Assergi sorse questa piccola chiesa ad una navata che nulla serba di antico oltre alla fronte riferibile al periodo ben caratterizzato da Santa Maria del Guasto e da San Vito. La muraglia rettangolare rialzata con opera moderna ha perduto il coronamento ed il finestrone a ruota; rimangono invece la cornice mediana ed il portale, che riproduce l’ingresso di Santa Maria del Guasto “.(15).

E tuttavia la ex chiesa assergese intus mœnia – ad avviso dello storico dell’arte – non seppe riprodurre di Santa Maria del Guasto «l’eleganza e la morbidezza che nel primo portale di questa indica l’opera di uno dei più grandi maestri del tempo» (16). Benché sopravvisse al devastante terremoto del 1703, Santa Maria del Carmine ebbe bisogno di ristrutturazioni sostanziali, nel quadro del generale riassetto urbanistico seguito all’evento sismico. Nel 1730 il sacro edificio fu oggetto di una radicale riprogettazione spaziale, come testimoniato da una lapide posta all’interno (17).

Si trattò, come ci informa Antonini, di una variante di quel modulo architettonico gesuitico (derivato dalla chiesa del Gesù a Roma) caratterizzato da una navata unica e ampia, con cappelle laterali intercomunicanti e un presbiterio poco profondo: il tutto finalizzato a creare, nello spirito dei decreti del Concilio di Trento (1545-1569), un senso di unità e centralità dello spazio che favorisse la concentrazione sull’altare dell’attenzione dei fedeli. In Santa Maria del Carmine, l’organismo ad aula venne rivestito da una fodera muraria robusta, che si nota applicata sulle precedenti pareti, onde rafforzarle, caratterizzata da una trama architettonico-plastica che costituisce variante al modulo gesuitico. Il partito spaziale si dispone su sistema a-b-b-b-a, ove le lettere estreme rappresentano le due strette campate d’apertura e di chiusura della sequenza delle tre ampie archeggiature cieche, indicate dalle lettere intermedie; archeggiature aprentisi lungo le pareti laterali longitudinali, e tenute da paraste corinzie. (18)

Alla struttura orizzontale che corre sopra le lesene e lega tutt’attorno lo svolgersi delle pareti fino a girare in curva sul piccolo coro divenuto semicircolare da ottagonale che è all’esterno; e alla lunga volta con le sue originali incorniciature che puntano verso il basso, è demandato il compito di orientare verso l’altare e verso l’immagine della Madonna in fondo all’abside l’attenzione del fedele. (19).

Per altro aspetto, l’ampiezza delle arcate laterali, a cui lo spessore dei pilastri, nel contrasto tra il colore bruno dei finti marmi e quello biancastro del fondo, danno un’illusoria profondità, sortiscono l’effetto architettonico da un lato di negare alle arcate stesse il carattere, proprio del modulo gesuitico, di varchi tra cappelle, e dall’altro di conferire loro il carattere di arcate divisorie di navate fantasma (20).

Questo sistema parietale plastico riproduce, secondo l’Antonini, quello strutturale del Cipriani presente nella cattedrale di San Massimo (21). Siamo dunque in presenza di uno degli esempi più rappresentativi di quelle riprogettazioni settecentesche aquilane di chiesa a navata unica (22). L’interno settecentesco, con i suoi tipici richiami barocchi, a me che scrivo, le rare volte che da ragazzo varcavo la soglia di questa chiesa con il nome di ‘Assergi’ nella mente, richiamava l’immagine della chiesa madre del paese, Santa Maria Assunta, prima dei restauri, e ciò mi faceva sentire a casa mia.

Si conclude qui, con i dotti richiami architettonici di Orlando Antonini, la storia di quella chiesa dentro le mura dell’Aquila che da ‘Santa Maria d’Assergi’ si chiamò ‘Santa Maria del Carmine’, storia che lo scrivente ha tratteggiato con un senso di commossa partecipazione, quella che sempre accompagna l’animo quando, per un motivo o per l’altro, è dato di accarezzare le radici, e coltivare gli affetti che ad esse tengono dietro.

 NOTE AL TESTO
(1) N. TOMEI, Dissertazione sopra gli atti, e culti di S. Franco, Napoli, Giuseppe Coda, 1791, pp. 43-44.
(2)  Ivi, p. 44.
(3) Cfr. R. COLAPIETRA, Antinoriana. Studi per il bicentanario della morte di A. L. Antinori, L’Aquila, Edizioni Libreria Colacchi, vol. II, 2002, p. 1135; Cfr. A. L. Antinori, Annali degli Abruzzi, Forni Editore Bologna, vol. XIX, p. 532, 539.
(4)  E. MARIANI, Memorie Istoriche, tomo I, parte I, fol. 447r , in D. GIANFRANCESCO, Assergi e S. Franco eremita del Gran Sasso, Roma, abete grafica s. r. l., 1980, p. 54, nota 83.
(5)  A. L. ANTINORI, XLVIII, p. 149, in D. GIANFRANCESCO, Assergi e S. Franco…, cit., p. 54 e nota 83.
(6)  R. COLAPIETRA, Antinoriana…, cit., p. 1135.
(7)  Ivi, pp. 1135-1136.
(8) A. SIGNORINI, La Diocesi di Aquila descritta ed illustrata, Aquila, Stabilimento Tipografico Grossi, 1868, p. 99; Cfr. V. MOSCARDI, Cenni topografici e storici del castello di Assergi, Aquila, Santini Simeone Editore, 1896, p. 27.
(9)  N. TOMEI, Dissertazione…, cit., p. 44.
(10) N. LODI, Storia della Diocesi Aquilana, Ms., Reg. III, f. 60rv., in D. GIANFRANCESCO, Assergi e S. Franco…, cit., p. 54 e nota 84.
(11) N. TOMEI, Dissertazione…, cit., p. 44.
(12) O. ANTONINI, “Santa Maria di Assergi (Il Carmine)” in Architettura Religiosa Aquilana, Todi (Pg), Tau Editrice, 2010, p. 281.
(13) Ivi, p. 282.
(14) Cfr. I. C. GAVINI, Storia dell’architettura in Abruzzo, Azzate (Va), Costantini Editore Pescara, 1980, vol. III, p. 49; Cfr. ID, Santa Maria Assunta in Assergi, Roma, Danesi, 1901, p. 24.
(15)  I. C. GAVINI, , Storia dell’architettura in Abruzzo, vol. III, cit., p. 39.
(16) Ibidem.
(17) Cfr. O. ANTONINI, “Santa Maria di Assergi (Il Carmine) in Architettura…, cit., p. 282. La lapide all’interno attestava, causticamente, che il Cardinale Ruffo, celebre personaggio del periodo napoleonico, «aedificavit non restauravit» la chiesa.
(18) Ibidem.
(19) Ibidem.
(20) Ivi, 284.
(21) Ibidem.
(22) Ivi, p. 285.

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