di Giuseppe Spagnulo
Che cosa succede quando crollano i grandi imperi e, sulle loro rovine, nascono Stati nuovi, con confini incerti, economie fragili e minoranze guardate con sospetto? L’Europa centro-orientale dopo la Prima guerra mondiale è questo: una mappa ridisegnata e subito contesa, un mosaico di rivalità, pogrom e discriminazioni, e un ordine economico che non riesce a ricomporsi. In questo quadro, le potenze vincitrici sentono di dover entrare in scena: cercano di guidare e mediare, spesso seguendo i propri interessi. Qui si inserisce la competizione tra Italia e Francia, che trasforma l’area danubiano-balcanica in uno “small game” capace di acuire tensioni già esplosive. È questa la problematica che viene studiata e approfondita nel libro di Antonella Fiorio, “Oltre l’Adriatico, verso il Danubio. L’Italia liberale e l’Europa centro-orientale nel primo dopoguerra (1919-1922)” (Le Monnier – Mondadori Università, Milano 2025, pp. 384).
Fiorio ricostruisce come la Grande guerra non abbia affatto pacificato la regione: l’autodeterminazione dei popoli, pur proclamata, non generò un ordine condiviso. Le decisioni del sistema di Versailles – la nascita del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e della Cecoslovacchia; l’indipendenza, ma la debolezza, di Austria e Ungheria; l’ampliamento della Romania; il ridimensionamento della Bulgaria; l’indipendenza dell’Albania e l’allargamento della Grecia – aprirono nuovi problemi politici, sociali, diplomatici ed economici. In un teatro affollato di Stati fragili e privi di coesione nazionale, l’ingresso delle maggiori potenze senza un’azione comune peggiorò le cose. Prima che la Germania tornasse con tutto il suo peso, lo scontro di interessi tra Roma e Parigi bastò a irrigidire lo scacchiere.
Seguendo i governi che si alternano in Italia tra il 1919 e il 1922 (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta), l’autrice mostra un Paese deciso a colmare il vuoto lasciato dall’Impero asburgico, fino ad allora cerniera dell’area. La domanda che guida la ricerca è semplice e dirimente: quale immagine aveva l’Italia di sé e della propria capacità d’influire sui nuovi equilibri? Per rispondere, il libro riparte dalla conferenza di Versailles e attraversa la fitta stagione di conferenze, incontri e trattative del primo dopoguerra, dove la diplomazia italiana prova a posizionarsi.
Lo sguardo non si ferma all’Adriatico: si allunga sul retroterra danubiano e intercetta i rapporti con tutti gli Stati successori dell’ex impero austro-ungarico, senza trascurare gli influssi della Bulgaria, della Turchia e della Transcaucasia. Costante è l’interazione con le grandi potenze – Francia, Germania, Unione Sovietica – anch’esse interessate a entrare nella trama di relazioni dell’area. Un’altra domanda attraversa il volume: come veniva percepita l’Italia nelle capitali danubiano-balcaniche? La preferenza per Roma emerge solo in precise congiunture, spesso come reazione alle oscillazioni francesi. Parigi, pur artefice dell’ordine orientale e garante dello status quo, nel 1919 arrivò a considerare un ritorno asburgico – limitato o nella forma di una confederazione danubiana – alimentando timori tra le leadership locali.
Capitolo dopo capitolo, Fiorio inquadra le priorità dei governi italiani e scende nei nodi delle due grandi aree – danubiana e balcanica. Affiorano questioni decisive: la paura del bolscevismo, i tentativi di restaurazione asburgica sul trono ungherese, i movimenti annessionisti austriaci verso la Germania, il consolidamento della Piccola Intesa, il riconoscimento dei nazionalisti turchi, la definizione dei rapporti con l’Unione Sovietica. Su ciascun fronte l’Italia cerca di orientare gli esiti, misurandosi con alleati, rivali e interlocutori diffidenti.
Il libro è anche un vivido affresco della diplomazia italiana negli ultimi anni dell’età liberale. Emergono due figure: Carlo
Carlo Sforza
Sforza e Pietro Tomasi Della Torretta. Sforza, sottosegretario con Nitti e poi ministro degli Esteri con Giolitti, vuole rinnovare la politica estera adattandola al nuovo contesto euro-mediterraneo: migliorare i rapporti con la Francia, stabilizzare l’Adriatico con l’accordo di Rapallo con il Regno serbo-croato-sloveno, restituire l’indipendenza all’Albania, guardare con favore al nazionalismo turco kemalista. Tomasi Della Torretta, ministro con Bonomi, rilancia la collaborazione con la Gran Bretagna, pratica l’equilibrio tra grandi potenze e punta a una stretta cooperazione tra Italia, Austria e Ungheria per arginare l’instabilità danubiana.
Poi però la politica interna cambia passo. Con il declino dei liberali e l’ascesa del fascismo, dal 1922 Mussolini fa proprie diverse idee dei due diplomatici ma li estromette: Sforza, umiliato nelle ambizioni, abbandona la carriera e va esule all’estero; Tomasi Della Torretta, dopo
Pietro Tomas Della
Torretta
l’Ambasciata a Londra, viene collocato in pensione anticipata nel 1928, mantenendo la carica di senatore ottenuta nel 1921. A traghettare la diplomazia verso il compromesso col nuovo corso è il segretario generale del Ministero degli Esteri Salvatore Contarini, amico di entrambi ma più pragmatico; anche lui, nel 1926, verrà messo da parte e si ritirerà a vita privata.
Le conclusioni del volume segnalano una linea di continuità: all’inizio, il fascismo non stravolge l’impostazione ereditata dai governi liberali sui nodi danubiano-balcanici. Resta però l’immagine di un Paese attratto da un’area strategica senza riuscire a fissare obiettivi stabili, più incline a mosse tattiche e reattive che a strategie coerenti. Come recita la quarta di copertina, «tanti forse troppi i problemi in cui l’Italia provò a inserirsi dopo il crollo dei grandi imperi, lungo un Danubio sguarnito che aspettava di essere governato».