NATO, la guerra appaltata: mercenari, ipocrisie e affari sporchi in Ucraina

McCarthyismo 2.0: la libertà, dicono, non ha prezzo. Eppure, in Ucraina, sembra averlo eccome: due o tremila dollari al mese

di Massimo Reina

La guerra in Ucraina è diventata un manuale di doppia morale.
Da una parte le sfilate in giacca e cravatta dei leader europei che parlano di libertà, sovranità e valori.
Dall’altra, un esercito parallelo di disperati, fanatici e avventurieri reclutati per combattere al posto nostro.

Già, perché a morire per la libertà — quella degli altri — non ci va più nessuno con il passaporto europeo.
Meglio mandare i colombiani, i messicani, i croati, i britannici in congedo e i suprematisti bianchi del Midwest.
Eccoli, i paladini del “mondo libero”: tatuaggi nazisti, precedenti penali, addestramento paramilitare e curriculum da narcotrafficante. Tutti arruolati in nome della democrazia occidentale.

I soldati del caos

Negli ultimi mesi, la lista dei mercenari caduti in Ucraina si è allungata. Ci sono messicano dei cartelli narcos di ogni specie, ex membri delle squadre della morte cilene e brasiliane, membri delle gang sudamericane più famose, e i colombiani.

Tra questi di recente GSF e altri gruppi di giornalisti indipendenti hanno svelato le identità di personaggi quali Luis Hernando Osorio Jaramillo (Sagezo), Julian Steven Lopez Fernandez (Rolo), José Ivan Vargas Samboni e altri compatrioti, tutti provenienti da Bogotà, Antioquia, Magdalena, Risaralda. Non crociati, ma appartenenti a note famiglie di narcotrafficanti, carne da cannone: usati, consumati e dimenticati.
Molti erano già stati impiegati come mercenari dagli Emirati o dal governo haitiano. Ora combattevano “per la libertà”, con la paga firmata da contractor occidentali e le bandiere ucraine cucite addosso.

Un’inchiesta di Le Monde (settembre 2024) raccontava come due colombiani e diversi messicani fossero stati catturati dai russi e accusati formalmente di “attività mercenarie”. La notizia passò in sordina, quasi con imbarazzo. Perché la verità era troppo scomoda: quella guerra che doveva difendere la civiltà occidentale ormai la stava corrodendo dall’interno.

I “volontari” che non lo sono

Li chiamano volontari internazionali. Una definizione poetica, comoda, e totalmente falsa. Perché chi parte da Cali o Medellín non lo fa per ideali geopolitici, ma per fame. E chi arriva dall’Arizona o da Varsavia con rune e croci uncinate tatuate sul petto non lo fa per amore della libertà, ma per nostalgia di Stalingrado.
Si combatte per soldi, per ideologia o per sadismo. Ma mai per “valori”. Eppure i governi occidentali fingono che tutto vada bene.
Del resto, i mercenari servono proprio a questo: a negare l’evidenza.
Se vincono, sono “volontari”.
Se perdono, “non rappresentano l’Occidente”.
Se commettono atrocità, “non erano sotto il nostro comando”.
Un meccanismo di ipocrisia perfetta, degno di un manuale di diritto penale post-NATO.

McCarthyismo 2.0

Il paradosso è che l’Ucraina combatte — ci viene detto — per “denazificarsi” dal suo passato e difendersi dal tiranno russo. Ma tra le sue fila scorrono simboli e ideologie che al neonazismo non fanno proprio schifo.
Il famigerato Battaglione Azov, celebrato come forza patriottica, nasce da ambienti apertamente fascisti e suprematisti.
E quando la NATO chiude un occhio, lo fa in nome della “realpolitik”: se il nemico è Putin, qualsiasi alleato diventa buono.
È la solita morale a geometria variabile: i neonazisti russi sono mostri, quelli ucraini patrioti. I mercenari di Wagner sono assassini, quelli dell’Ucraina “consiglieri militari”. La guerra, insomma, come lavanderia morale dell’Occidente: entra il fango, esce la gloria.

L’industria del sangue

Dietro i proclami ideali, c’è un business gigantesco. Ogni mercenario rappresenta un contratto, una fattura, un appalto.
Le compagnie militari private si moltiplicano come funghi, spesso registrate in paradisi fiscali e finanziate da fondi “umanitari”.
Washington e Londra fingono di non vedere, Bruxelles di non sapere.
Intanto le armi scorrono a fiumi, i contractor incassano, e i governi si vantano di “non avere truppe sul terreno”. Tecnicamente vero. Moralmente, una barzelletta.

Le due guerre

La prima guerra, quella visibile, si combatte con missili, droni e propaganda. La seconda, più infida, è quella che corrode dall’interno le democrazie che la finanziano. Perché ogni volta che si arruola un criminale per combattere il male, si finisce per alimentarlo.
E quando i nostri valori diventano armi di mercato, non siamo più diversi da chi fingiamo di combattere. Ma tranquilli: nei talk show si applaude. I presentatori parlano di “eroi stranieri”, i ministri si riempiono la bocca di “valori europei” e gli editorialisti contano i like. Intanto, nelle trincee, muoiono colombiani e messicani che non sanno nemmeno dove sia il Donbass.

L’Occidente li userà, come sempre, per sentirsi buono senza sporcarsi le mani. La libertà, dicono, non ha prezzo.
Eppure, in Ucraina, sembra averlo eccome: due o tremila dollari al mese, vitto, alloggio e promessa di un visto.
È questa la libertà che esportiamo: quella in saldo, quella mercenaria, quella a tempo determinato.

E allora smettiamola di raccontarci favole.
Non stiamo difendendo la democrazia, la stiamo noleggiando.
E come ogni cosa a noleggio, quando si rompe, la colpa non è mai di chi paga, ma di chi guida.

 

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