Stiamo morendo, ma non fisicamente. Alla morte psicologica e spirituale si può porre rimedio?

Di Dr Sethi K.C. – Autore Filosofico Daman, India – Auckland, Nuova Zelanda

Spesso sento che non stiamo morendo perché il nostro cuore smette di battere, ma perché la nostra
anima ha dimenticato come sentire. Da qualche parte, tra il guadagnare e l’esistere, tra il mostrare
e il fingere, abbiamo perso il battito stesso della vita. E questa è la tragedia dei nostri tempi: vivere
senza essere davvero vivi.
Moriamo in silenzio, invisibilmente, a volte perfino con bellezza, dietro i nostri sorrisi e le nostre
abitudini. Ogni volta che soffochiamo un’emozione, che evitiamo la verità, che fingiamo di stare
bene mentre il cuore trema dentro, noi moriamo un po’. Ho visto questa morte negli occhi delle
persone: vuoti ma luminosi, inquieti ma robotici. Parlano di progresso, ma soffrono di solitudine; i
loro schermi brillano, ma il loro spirito si spegne.
Un tempo la vita respirava nelle pause: guardare un tramonto, scrivere una lettera, ascoltare il
silenzio. Oggi corriamo per catturare, non per vivere. Le nostre dita toccano più spesso un vetro che
una mano umana. A volte mi chiedo: stiamo avanzando o stiamo solo accelerando verso il vuoto?
Moriamo a pezzi: mentalmente, moralmente, emozionalmente, spiritualmente. Il corpo vive, ma la
mente è intorpidita. La coscienza, che un tempo parlava forte, ora sussurra piano tra rumori e
notifiche. Sì, il significato del vivere è passato dall’essere al mostrare, dal sentire al funzionare.
I social media sono il nuovo teatro dell’esistenza. Sorridiamo alla fotocamera per nascondere le
lacrime, celebriamo le ombre perdendo la sostanza. Ogni scroll diventa una ricerca — non di
conoscenza, ma di appartenenza. Ogni post è una richiesta — di essere visti, amati, ricordati.
Eppure l’ironia resta: più siamo connessi, più ci sentiamo divisi dentro.
A volte mi fermo e mi chiedo: da quando la vita è diventata una mostra?
Da quando la gioia ha bisogno di essere approvata?
Da quando il silenzio è diventato scomodo?
Siamo diventati curatori di illusioni, e moriamo un po’ ogni volta che dimentichiamo chi siamo.
Filosoficamente, questa morte non è fisica, ma psicologica e spirituale. È lo spegnersi graduale
della curiosità, l’erosione lenta della meraviglia, l’offuscarsi dell’empatia. Un bambino guarda il
mondo con stupore; un adulto lo misura. E in questo passaggio perdiamo la nostra innocenza, e
con essa una parte della nostra vitalità.
La tecnologia, pur essendo un dono, ha iniziato a dettare il nostro ritmo interiore. Il giorno
comincia con notifiche e la notte finisce con la luce blu. Non dormiamo per stanchezza, ma
nonostante la stanchezza. Il dispositivo, che era uno strumento, è diventato un tiranno. Decide i
nostri stati d’animo, le priorità, perfino il nostro valore. Misuriamo la felicità con “mi piace” e
commenti, dimenticando che la validazione non è affetto.
Ho visto persone vivere fianco a fianco ma lontane come oceani. Coppie che cenano insieme ma
parlano agli schermi. Bambini che cercano affetto in un mondo animato, e genitori che inseguono
scadenze. Lo chiamiamo stile di vita; io lo chiamo morte lenta.
Questa corrosione diventa ansia, stanchezza, vuoto. Cerchiamo più stimoli perché abbiamo perso
la sensibilità. Il calore del linguaggio sparisce quando le emozioni vengono sostituite dagli emoji, e
la profondità delle relazioni si perde quando la reazione prende il posto della compassione. Non
sono contro il progresso; sono contro l’oblio del suo scopo.

Crescere fuori senza arricchirsi dentro è come innaffiare un albero dalle radici secche. La mente di
oggi è troppo informata e poco consapevole. Sappiamo troppo e comprendiamo troppo poco.
Stiamo decadendo moralmente. L’avidità si traveste da ambizione, la manipolazione da
intelligenza. L’etica è diventata negoziabile; la comodità misura ciò che è giusto. Non ci chiediamo
più se qualcosa sia giusto; chiediamo solo se funziona. E anche questa è una morte, la morte
dell’integrità.
Abbiamo confuso il successo con la sopravvivenza. Corriamo senza mai arrivare. La corsa del “di
più” ci ha rubato la pace del “basta così”. Ad ogni risultato segue un’altra mancanza; ad ogni
applauso un altro desiderio. Stiamo morendo di abbondanza, un’abbondanza senza significato.
Eppure credo che possiamo tornare a vivere. Tutto inizia dalla consapevolezza: che la vera malattia
è la disconnessione dalla natura, dalle persone, da noi stessi. Quando ci ricolleghiamo, quando
iniziamo a sentire senza filtri, a respirare senza fretta, inizia la resurrezione. Non servono miracoli,
serve presenza.
Ascoltare quando qualcuno parla, guardare il cielo senza fotografarlo, amare senza un obiettivo
questi piccoli atti sono già rinascita. Ogni sentimento autentico cura la morte silenziosa dentro di
noi. Non sto predicando questo libro; sto confessando.
Scrivendo queste pagine, ho sentito anch’io la lenta stanchezza della vita moderna — il peso del fare
continuo, l’assenza dell’essere quieto. Ma ho scoperto anche che morire consapevolmente al falso è
l’inizio della vera vita. Questa è rinascita — morire all’ego, alla comparazione, alla finzione.
Questo non è un libro di disperazione, ma di risveglio. È uno specchio posto davanti alla nostra
esistenza collettiva — un riflesso di come viviamo a metà inseguendo apparenze complete. Voglio
ricordare al lettore che sotto il rumore c’è ancora musica; sotto la polvere c’è ancora luce. Stiamo
morendo, sì — ma non oltre la possibilità di guarire.
Ogni atto di sincerità ridà vita al cuore.
Ogni gesto di gentilezza risveglia l’umanità.
Ogni momento di consapevolezza porta nuovo respiro all’essere.
Possiamo ancora scegliere la presenza invece della performance, il significato invece
dell’imitazione, l’amore invece della solitudine. Forse la morte non è il vero nemico; è l’indifferenza
che ci uccide per prima. Vivere davvero è restare sensibili, curiosi, compassionevoli.
Se riusciamo a mantenere il cuore sveglio anche nel caos, allora la morte non ci spaventerà più —
perché avremo vissuto veramente. E così, iniziando questo viaggio di pensieri e riflessioni, ricordo
a me stesso e ai lettori: Stiamo morendo — ma proprio in questa consapevolezza nasce il seme della
rinascita. Ogni parola qui non è un lamento, ma un invito: a sentire di nuovo, a vedere di nuovo, a
tornare vivi.

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