Il 4 dicembre 2025 la Sala Stampa vaticana ha pubblicato la sintesi della Commissione di studio sul diaconato femminile, presieduta dal cardinale Giuseppe Petrocchi. Il testo è chiaro: non è possibile procedere verso l’ammissione delle donne al diaconato inteso come grado del sacramento dell’Ordine. Allo stesso tempo, la Commissione afferma che non è ancora possibile formulare un giudizio definitivo, come nel caso dell’ordinazione sacerdotale, e invita ad approfondimenti ulteriori, pur indicando la via dei ministeri laicali come alternativa concreta.
In sintesi: la porta del diaconato sacramentale per le donne oggi resta chiusa, ma non viene murata per sempre. Il “no” è reale, operativo, ma teologicamente prudenziale.
A questo si aggiunge quanto Papa Francesco aveva già dichiarato in un’intervista del 2024: la Chiesa non ha l’autorità di conferire l’Ordine sacro alle donne, inclusi i diaconi, in continuità con la linea di Ordinatio Sacerdotalis di Giovanni Paolo II sul sacerdozio maschile.
Eppure, di fronte a questo quadro, la teologa Phyllis Zagano – una delle studiose più note a favore delle donne diacono – ha commentato che il nuovo rapporto “non presenta prove o un vero argomento teologico, ma solo l’opinione che serva ancora studio. In realtà non possono dire ‘no’, semplicemente non vogliono dire ‘sì’”.
Allora la prima domanda, onestamente, è questa:
siamo davanti a un impossibile teologico o a un’impossibilità psicologica ed ecclesiale?
È davvero Dio a dire “no”, o la Chiesa – in questo tempo – non riesce a dire “sì” senza temere di perdere se stessa?
Per capire qualcosa, dobbiamo tornare al cerchio di volti attorno a Gesù. Gesù è uomo, ebreo, figlio di un popolo concreto, immerso in una cultura in cui:
- la donna non ha accesso ai ruoli di guida religiosa,
- la testimonianza femminile vale meno in tribunale,
- lo spazio liturgico è maschile.
Dentro questo contesto, Gesù sceglie dodici uomini come apostoli, simbolo delle dodici tribù d’Israele. È una scelta profondamente simbolica e storica. Ma nello stesso tempo:
- si lascia toccare da donne impure,
- dialoga in pubblico con la Samaritana,
- accoglie la richiesta della Cananea,
- si lascia ungere da una peccatrice,
- è sostenuto da donne che lo seguono e lo assistono con i loro beni,
- affida a Maria di Magdala l’annuncio della Risurrezione, facendone l’apostola degli apostoli, come la tradizione la chiamerà più tardi.
Se prendiamo sul serio tutto il Vangelo, la domanda diventa più scomoda:
- Gesù ha scelto dodici uomini perché la Rivelazione richiede per sempre un ministero solo maschile?
- Oppure ha scelto dodici uomini perché in quel contesto storico nessuna donna avrebbe potuto assumere pubblicamente il ruolo di fondatrice di comunità, e il Vangelo chiede alla Chiesa nei secoli di tradurre quella scelta in forme nuove, fedeli al cuore ma non alla lettera?
Teologhe come Ute E. Eisen e storici come Enrico Cattaneo SJ hanno mostrato come, accanto ai Dodici, esista nel cristianesimo delle origini una trama reale di donne che esercitano ministeri di guida, annuncio e servizio riconosciuti, fra cui la famosa Febe, chiamata da Paolo “diakonos della Chiesa di Cencre” (Rm 16,1). Se Gesù ha voluto “per sempre” solo ministri maschi, perché il Nuovo Testamento ci consegna figure così forti di donne in ruoli di responsabilità? E perché la Chiesa ha avuto bisogno di secoli per leggere fino in fondo questa trama, spesso riducendo questi ruoli a eccezioni o curiosità?
La provocazione qui è semplice e radicale:
il fatto che Gesù sia uomo giustifica davvero una Chiesa strutturalmente maschile nei ministeri sacramentali, o ci rivela piuttosto quanto sia difficile per noi immaginare un’autorità che non coincida con un certo tipo di maschilità?
Uno dei punti centrali del dibattito è la figura delle diaconesse nella Chiesa antica.
- Studi come quelli di Phyllis Zagano sostengono che in diversi luoghi e periodi le diaconesse siano state veramente ordinate, con imposizione delle mani, e ricordate nelle fonti liturgiche come “diacone”, non solo come “aiutanti delle donne”.
- Al contrario, teologi come Aimé Georges Martimort, Manfred Hauke, Catherine Brown Tkacz e Sara Butlerinsistono che storicamente le diaconesse non hanno mai condiviso la stessa natura sacramentale dei diaconi maschi: il loro ruolo era limitato, soprattutto al battesimo per immersione delle donne e alla catechesi femminile, non all’esercizio del ministero ordinato in senso pieno.
La Commissione Teologica Internazionale nel 2002, nel documento From the Diakonia of Christ to the Diakonia of the Apostles, ha concluso che le figure storiche delle diaconesse non sono un semplice doppione femminile dei diaconi e che il loro ufficio non può essere sovrapposto automaticamente al diaconato come lo intendiamo oggi. Il rapporto Petrocchi, citando proprio questo quadro diviso, afferma che le fonti non consentono di fondare teologicamente l’ammissione delle donne al diaconato come grado dell’Ordine, e che dunque oggi non è possibile procedere in tal senso.
Ma qui nasce una seconda domanda critica:
- quando la storia è ambivalente, la Chiesa sceglie sempre la via più restrittiva?
- perché la mancanza di una prova “assoluta” sulle diaconesse viene usata per bloccare, e non per aprire la possibilità di un discernimento creativo, come suggerisce Zagano quando dice che non c’è alcun precedente per escludere le donne dal diaconato, ma ce ne sono per includerle?
In altre parole: il dubbio storico diventa sempre alibi per non cambiare, o può diventare spazio in cui rischiare un passo in avanti, se lo Spirito lo suggerisce?
Una parte consistente della teologia contraria alle donne diacono – e alle donne prete – si appoggia a un argomento simbolico forte: il ministro ordinato deve rappresentare sacramentalmente Cristo Sposo, in persona Christi Capitis. Poiché Cristo si è incarnato come uomo, solo un uomo potrebbe rendere sacramentalmente questa “figura”. Teologhe come Sara Butler riprendono questa linea per dire che il corpo maschile è parte della “adeguatezza simbolica” del ministro ordinato. Qui la domanda non è solo teologica, è antropologica e spirituale:
stiamo dicendo che una donna battezzata non può “immaginare Cristo”?
Che il suo corpo, la sua voce, il suo volto non possono essere segno visibile di Cristo servo, di Cristo che lava i piedi, di Cristo che annuncia il Vangelo?
Se è vero che nel battesimo “non c’è più né uomo né donna” in termini di dignità davanti a Dio, come ci ricorda san Paolo (Gal 3,28), fino a che punto è coerente dire, nello stesso tempo, che per rappresentare Cristo nella liturgia il corpo di metà dell’umanità è inadeguato per principio?
Qui la provocazione è diretta:
non rischiamo di trasformare il mistero di Cristo in un dogma sul cromosoma Y?
Non stiamo assolutizzando una forma storica e culturale della maschilità come unica finestra possibile su Dio, proprio mentre proclamiamo che il Verbo si è fatto carne per assumere e salvare ogni carne? Mentre commissioni e teologi discutono, nelle comunità succede qualcosa che dovrebbe metterci in crisi: in moltissimi luoghi del mondo le donne fanno già, di fatto, gran parte di ciò che noi associamo alla diaconia:
- annunciano la Parola,
- guidano gruppi di ascolto e di preghiera,
- preparano bambini e adulti ai sacramenti,
- accompagnano malati, poveri, migranti, carcerati,
- coordinano opere di carità, scuole, centri di ascolto,
- tengono in piedi intere parrocchie dove il prete è solo o di passaggio.
Se domani togliessimo le donne da questi ruoli, in molte diocesi non resterebbe che chiudere porte e spegnere luci. Eppure, quando si arriva al livello sacramentale, la parola è: “no”. La Commissione Petrocchi propone con forza di allargare i ministeri laicali femminili, istituendo nuove forme di servizio riconosciuto, ma mantenendo la frontiera invalicabile dell’Ordine.
La domanda allora diventa ancora più bruciante:
- Davvero abbiamo paura che riconoscere sacramentalmente ciò che le donne già vivono impoverisca il ministero ordinato?
- Oppure il vero timore è perdere un certo controllo, un certo equilibrio di potere, più che la fede nella struttura sacramentale?
Intanto, movimenti come Discerning Deacons e realtà come la Women’s Ordination Conference leggono l’ultimo “no” come l’ennesimo segnale di una Chiesa che chiede alle donne di servire, ma senza farsi domande troppo profonde su come condividere anche l’autorità.
Lo scontro rischia di polarizzarsi: da una parte chi chiede a gran voce il diaconato femminile come simbolo di uguaglianza; dall’altra chi lo rifiuta come minaccia di protestantizzazione o preludio al sacerdozio femminile. Ma se restiamo solo su questo piano, perdiamo qualcosa di decisivo.
La vera questione è: che immagine di Chiesa stiamo difendendo o cercando?
- Una Chiesa dove il ministero è ancora percepito come privilegio più che come esproprio di sé?
- Una Chiesa in cui la differenza di genere diventa argine identitario (“noi non siamo come il mondo”), più che dono da ripensare insieme alla luce del Vangelo?
- Una Chiesa che ha paura di riconoscere che, forse, lo Spirito ha preparato nei secoli un terreno per passi che non avevamo immaginato?
La stessa Commissione Teologica Internazionale del 2002, pur con tutte le cautele, ricordava che il diaconato è stato oggetto di sviluppi storici importanti e che, dopo il Vaticano II, la sua restaurazione come grado stabile dell’Ordine apre nuove domande ecclesiologiche.
La provocazione, allora, può diventare preghiera:
Sono disposto a chiedere a Dio non solo “dammi ragione”, ma “fammi vedere dove la tua Chiesa ha ancora paura di te”?
Potremmo chiudere questa storia con un sospiro: “non cambierà mai nulla”, o con un grido: “andiamo via, costruiamo altro”.
Ma forse, come discepoli, siamo chiamati a una posizione più scomoda e più vera: restare nella tensione con Dio, senza censurare nessuna delle domande.
Perché le domande oggi sono davvero alte, umane e spirituali:
- Se il battesimo ci rende tutti partecipi del sacerdozio di Cristo, come possiamo dire che nessun corpo femminile è mai adeguato a rappresentare sacramentalmente il Cristo servo?
- Quanto le nostre paure sul diaconato femminile vengono dal Vangelo e quanto dalla fatica di ripensare potere, genere e autorità dentro la Chiesa?
- Che cosa perdiamo, come comunità, quando le donne che sentono una chiamata a una forma più visibile di diaconia sono costrette a viverla sempre “a metà”, senza un riconoscimento pieno?
- Siamo disposti ad ascoltare davvero le storie concrete delle donne nella Chiesa, prima di sistemare la questione nei nostri schemi teologici?
Non abbiamo risposte pronte. La Commissione Petrocchi dice che oggi non si può procedere, ma riconosce che il giudizio definitivo non è stato pronunciato.
Il che significa, in termini spirituali, che anche la Chiesa ammette di essere ancora in cammino su questo punto.
Forse il modo più evangelico di stare qui è questo:
- riconoscere la ferita reale delle donne che sentono questo “no” come un rifiuto della loro pienezza battesimale;
- riconoscere la paura reale di tanti credenti che temono che ogni cambiamento sul ministero spezzi la comunione;
- chiedere allo Spirito non di confermare i nostri blocchi, ma di purificare i nostri desideri — sia quelli di riforma, sia quelli di conservazione.
Il Gesù uomo del Vangelo, ogni volta che incontra una donna, sposta in avanti il confine di ciò che è ritenuto possibile: non annulla la differenza, ma la libera da ruoli rigidi. Non cambia l’istituzione del Tempio, ma cambia per sempre il modo in cui Dio si lascia incontrare nei corpi, nelle voci, nelle lacrime e nella fede di chi gli sta davanti.
La domanda finale, allora, potremmo farla così, guardando il Crocifisso:
Signore, in questa storia delle donne e del diaconato, chi sto difendendo davvero: Te, la tua Chiesa… o la mia immagine di Te e della Chiesa?
Se abbiamo il coraggio di restare sotto questa domanda, senza fuggire, forse – un giorno – scopriremo che la vera conversione non riguardava solo il “sì o no” alle diacone, ma il modo in cui impariamo, tutti, a fidarci di un Dio che non smette di sorprendere la sua Chiesa.
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