C’è una categoria che Amazon sembra aver scoperto solo di recente: i clienti onesti. Ma invece di premiarli, spesso li guarda come fossero un’anomalia da correggere
Sempre più consumatori segnalano un comportamento anomalo nelle procedure di controllo dei resi Amazon, in particolare per i prodotti Warehouse. La dinamica è spesso simile: arriva un prodotto manomesso, il cliente contatta il supporto, segue le istruzioni per il reso, ma al momento della verifica interna viene segnalata una presunta “violazione delle politiche”.
Nel caso in esame, il cliente ha ricevuto un articolo incompleto, con evidenti segni di manipolazione antecedenti alla consegna. Ha restituito ciò che ha trovato, ha informato l’assistenza, ha persino offerto la possibilità di sporgere denuncia ai Carabinieri — invito declinato dallo stesso servizio clienti.
Eppure, la macchina automatica di Amazon ha reagito con una segnalazione che mette in discussione la correttezza del cliente, nonostante dieci anni di cronologia impeccabile e acquisti di valore. L’episodio solleva interrogativi legittimi: quanto sono affidabili i controlli interni del servizio Warehouse? E quanto è sicuro il percorso logistico dei resi?
E poi, perché un cliente viene considerato il primo indiziato, mentre eventuali anomalie nella catena di trattamento non vengono altrettanto approfondite? La questione è delicata e merita attenzione, perché introduce un principio pericoloso: la presunzione automatica di colpa verso chi si comporta correttamente.
In un ecosistema dominato dagli algoritmi, la fiducia non può essere un privilegio concesso a intermittenza.
Se la procedura non torna, la colpa è del sistema, non dell’utente. Così nasce una forma moderna di difesa aziendale: spostare l’attenzione dal prodotto difettoso al consumatore che lo segnala. E allora sì, va detto chiaramente: quando un cliente corretto viene trattato come un problema, il problema non è il cliente. È il sistema.