Genitori, scuola e comunità davanti a una domanda che brucia: come si cresce un figlio quando l’attenzione scappa, il corpo si muove e il cuore chiede di essere visto davvero?
Dedica
A Silvia, maestra e madre: perché conosci il peso delle giornate e, nonostante tutto, continui a scegliere lo sguardo che salva.
C’è una frase che sento ripetere troppo spesso, nelle famiglie e nei corridoi delle scuole, e ogni volta mi fa lo stesso effetto: sembra semplice, sembra pratica, sembra “di buon senso”. In realtà è una lama. “È solo un bambino vivace”. Oppure: “Deve imparare a stare fermo”. Oppure ancora: “Se lo volesse, ce la farebbe”.
Ecco, l’ADHD comincia spesso qui: nel punto in cui un comportamento viene letto come scelta, mentre è fatica. Nel punto in cui una difficoltà viene scambiata per carattere, mentre è un modo diverso di funzionare. Nel punto in cui un bambino non viene più visto come persona in crescita, ma come problema da gestire.
Parliamone con chiarezza, senza ideologie e senza mode. L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività) non è una parolaccia e non è una “diagnosi comoda” per giustificare tutto. Ma non è nemmeno una scusa. È una condizione neuroevolutiva che può influire su attenzione, impulsività e autoregolazione. Tradotto: non significa che il bambino non capisce, significa che spesso fatica a governare ciò che capisce. Non significa che non è intelligente, significa che può essere intelligentissimo e al tempo stesso sentirsi continuamente “fuori ritmo”, come se il mondo chiedesse un passo e lui avesse un altro tempo nel corpo e nella mente.
Il punto più delicato è questo: i bambini non hanno le parole per spiegare la loro fatica. Quindi la mettono in scena. Con movimenti, interruzioni, distrazioni, scoppi emotivi, dimenticanze, “non ascolta”, “non sta mai fermo”, “provoca”, “si perde”. E noi adulti, se non stiamo attenti, rispondiamo solo alla scena, non alla domanda che c’è sotto. Il bambino allora impara una lezione terribile: “Io sono sbagliato”. E quando questa frase entra dentro, non basta più un voto buono o una punizione per cambiarla.
Un bambino con ADHD può vivere una contraddizione che spiazza: in alcuni momenti sembra incapace di concentrarsi su un compito di pochi minuti, in altri può stare ore su ciò che lo aggancia (un gioco, un video, un interesse, una costruzione). È il famoso “iperfocus”, che non è magia né capriccio: è un aggancio forte del sistema attentivo su qualcosa di altamente stimolante o emotivamente coinvolgente. E qui i genitori si fanno una domanda onesta: “Ma allora quando vuole, ce la fa”. Sì e no. Perché il tema non è la volontà, è la regolazione. È come chiedere a qualcuno con la febbre di “decidere” di abbassare la temperatura: può provarci, ma non è così che funziona.
Attenzione: parlare di ADHD non significa mettere etichette a caso. Ci sono fasi dello sviluppo in cui la vivacità è normalissima. Ci sono periodi di stress familiare, cambiamenti, separazioni, lutti, trasferimenti, che possono far esplodere disattenzione e agitazione. Ci sono problemi del sonno, ansia, difficoltà di apprendimento, emotività intensa, che possono assomigliare all’ADHD o convivere con esso. Per questo servono valutazioni serie, professionisti competenti, uno sguardo integrato. Non la diagnosi “da video” e nemmeno l’autoassoluzione. Serve responsabilità: perché un’etichetta sbagliata fa male, ma anche ignorare un bisogno reale fa male.
I segnali, quando ci sono, non stanno mai in un singolo episodio. Stanno nella ripetizione, nella pervasività, nell’impatto sulla vita quotidiana. Un bambino che dimentica sempre il materiale, che perde costantemente le cose, che fatica a seguire istruzioni in più passaggi, che passa da una cosa all’altra senza finire, che interrompe, che si alza in continuazione, che sembra “non sentire” quando gli parli, che esplode emotivamente per frustrazioni piccole, che vive la scuola come un campo minato. E soprattutto: un bambino che, col tempo, smette di provarci. Perché la fatica di essere rimproverato ogni giorno diventa più pesante della fatica di studiare.
Qui sta il bivio: o lo leggiamo come disobbedienza, o lo leggiamo come richiesta di aiuto. E la differenza tra queste due letture cambia una vita.
Per i genitori è durissima, perché nessuno nasce “pronto” a gestire un figlio che vive in accelerazione o in dispersione. Arriva anche la vergogna: lo sguardo degli altri, il giudizio implicito al parco, la maestra che chiama, i nonni che dicono “ai miei tempi…”. E arriva pure il senso di colpa: “Dove ho sbagliato?”. È umano. Ma se restiamo lì, dentro la colpa, perdiamo il bambino. Perché il bambino non ha bisogno di un tribunale: ha bisogno di una guida.
C’è una cosa che spesso non diciamo: i genitori di bambini con ADHD vivono anche un logoramento invisibile. Organizzare il mattino, i compiti, gli orari, le regole, può diventare una guerra quotidiana. E quando la guerra dura mesi, anni, si consuma l’energia affettiva. A quel punto la casa rischia di diventare un luogo di comandi e di scontri, dove l’amore c’è ma non passa più. E il bambino, che è sensibilissimo al clima emotivo, si irrigidisce o scappa. È un circolo: più rimproveri, più stress; più stress, più sintomi; più sintomi, più rimproveri. Spezzarlo non è “buonismo”: è igiene relazionale.
Qual è la prima rivoluzione possibile? Cambiare la domanda. Non: “Perché fai così?”. Ma: “Che cosa ti succede quando fai così?”. Non: “Perché non ti impegni?”. Ma: “Qual è il punto in cui ti perdi?”. Non: “Perché mi fai disperare?”. Ma: “Come posso aiutarti a riuscire, senza umiliarti?”.
Questo non toglie i limiti. Li rende sensati. Perché i limiti non sono muri contro un bambino: sono confini che proteggono un bambino. Ma devono essere confini praticabili, chiari, coerenti, e soprattutto accompagnati da un legame. Un bambino con ADHD non ha bisogno di meno regole: ha bisogno di regole più semplici, più visibili, più “allenabili”. Ha bisogno che l’adulto smetta di parlare solo a parole e inizi a parlare anche con l’ambiente: routine, check-list, oggetti sempre nello stesso posto, tempi brevi, pause previste, consegne spezzate, rinforzi positivi immediati. Non perché “lo vizi”, ma perché lo aiuti a costruire competenze di autoregolazione che per lui non sono automatiche.
Molti genitori mi dicono: “Ho paura che gli altri pensino che non so educare”. È qui che entra in gioco la comunità. Perché la verità è questa: un bambino non cresce da solo in una famiglia. Cresce in un ecosistema. E se l’ecosistema giudica, il bambino si chiude. Se l’ecosistema sostiene, il bambino fiorisce.
La scuola, ad esempio, può essere ferita o cura. Dipende. Se un bambino viene etichettato come “quello che disturba”, il suo posto nel gruppo diventa quello del colpevole. E quando un bambino diventa “il colpevole”, gli altri imparano a guardarlo così. È una profezia che si autoavvera. Se invece la scuola costruisce alleanza con la famiglia, definisce strategie chiare, valorizza i punti di forza, normalizza alcune fatiche, allora la classe diventa un laboratorio di crescita. Non perfetto, ma umano.
E qui serve dirlo: non basta “buona volontà”. Servono strumenti. Formazione degli insegnanti, tempi di ascolto, figure di supporto, comunicazione non colpevolizzante, obiettivi realistici, modalità di verifica adatte quando necessario. Un bambino non va “salvato” abbassando le aspettative: va accompagnato costruendo condizioni perché possa esprimere le sue capacità senza essere schiacciato dal metodo.
Dentro l’ADHD c’è anche un tema emotivo che spesso ignoriamo. La frustrazione ripetuta produce rabbia o tristezza. Il sentirsi rimproverati produce chiusura. Il sentirsi “sotto esame” produce ansia. E molti bambini, per difendersi, sviluppano un’immagine di sé dura: “Io non ci riesco”, “Io sono cattivo”, “Io non valgo”. Per questo i genitori dovrebbero imparare una forma di comunicazione che sembra piccola ma è potentissima: separare la persona dal comportamento. Non “sei insopportabile”, ma “questa cosa non va bene”. Non “sei sempre il solito”, ma “qui dobbiamo trovare un modo diverso”. Non “mi fai perdere la pazienza”, ma “io adesso sono stanco, facciamo una pausa e ripartiamo”.
E poi c’è la tecnologia. Non demonizziamola, ma non facciamoci prendere in giro. Un bambino con ADHD può essere particolarmente vulnerabile agli stimoli digitali perché il digitale è progettato per catturare attenzione immediata. Non è colpa del bambino se il cervello si aggancia. È anche un fatto di design. Qui serve tecnoempatia: adulti capaci di costruire confini digitali non come punizione, ma come protezione. Non “ti tolgo il tablet perché sei cattivo”, ma “ti aiuto a non finire risucchiato, perché ti voglio bene”. E insieme: alternative reali, corpo, sport, gioco libero, creatività, amicizie dal vivo, attività manuali. Un cervello in movimento ha bisogno anche di un corpo in movimento, e di relazioni incarnate.
C’è un altro punto spesso dimenticato: i bambini con ADHD hanno anche doni. Energia, intuizione, creatività, rapidità di pensiero, capacità di vedere connessioni, sensibilità. Se però vengono cresciuti solo a forza di correzioni, quei doni diventano instabilità. Se invece vengono riconosciuti e incanalati, diventano competenze. Un genitore che sa dire: “Vedo che sei brillante”, “Vedo che hai fantasia”, “Vedo che quando ti appassioni sei incredibile”, sta costruendo un terreno di autostima su cui poi si possono chiedere sforzi e regole. Senza questo terreno, le regole diventano umiliazione.
E cosa può fare, concretamente, una famiglia? Piccole scelte che non risolvono tutto ma cambiano l’aria.
Ridurre le parole e aumentare la struttura: poche regole, chiare, sempre uguali. Routine visive: un cartellino con “mattina”, “compiti”, “sera”. Tempi brevi: 10-15 minuti di compito e poi una pausa concordata. Obiettivi micro: “Facciamo tre esercizi”, non “finisci tutto”. Premiare lo sforzo, non solo il risultato. Anticipare le transizioni: “Tra cinque minuti si spegne e si prepara lo zaino”. Fare ordine nell’ambiente: meno oggetti in vista, meno stimoli. Dare un posto fisso alle cose. Creare rituali di calma: una lettura, un respiro, un gesto ripetuto. E soprattutto, quando esplode il conflitto, ricordarsi che vincere la discussione non serve: serve salvare la relazione.
E quando serve aiuto, chiederlo senza vergogna. Pediatra, neuropsichiatra infantile, psicologo dell’età evolutiva, logopedista, servizi territoriali, centri specializzati. Non per “medicalizzare” la vita, ma per comprenderla. A volte un percorso psicologico sulle abilità di autoregolazione e sulla gestione emotiva è decisivo. A volte il lavoro con la scuola è la svolta. A volte si valutano anche interventi farmacologici, quando indicati e seguiti da specialisti, ma questo è un tema che va trattato con rigore e serenità, lontano dai social e vicino alla clinica. La cosa più importante è non lasciare la famiglia sola e non lasciare il bambino prigioniero del giudizio.
Ed eccoci alla comunità, che per me è la parola che salva. Perché un bambino con ADHD non vive solo in casa e a scuola. Vive in parrocchia, in oratorio, nello sport, nei gruppi, nelle feste, nei compleanni, nelle sale d’attesa, nelle file. Vive in un mondo di adulti che spesso chiedono “comportati bene” senza chiedersi se stiano offrendo condizioni per riuscirci.
La comunità matura si riconosce da una cosa: non dal fatto che “tolleriamo” il bambino difficile, ma dal fatto che impariamo a includerlo senza etichettarlo. Una catechista che sa accogliere il movimento senza umiliare, un allenatore che sa trasformare l’energia in disciplina non punitiva, un educatore che sa dare compiti concreti (portare una cosa, aiutare a preparare, guidare un piccolo gruppo), una famiglia amica che non giudica ma sostiene, un nonno che smette di paragonare e inizia a comprendere. Questa è fraternità concreta. Questa è pace quotidiana. È la differenza tra “ti sopportiamo” e “ti vogliamo bene”.
E allora, forse, la domanda giusta per tutti noi non è: “Che problema ha questo bambino?”. Ma: “Che responsabilità abbiamo noi adulti nel creare spazi dove possa crescere?”. Perché a volte il bambino è il sintomo di una società che non sa più reggere la complessità, che pretende prestazioni continue, che misura tutto, che giudica in fretta. L’ADHD ci costringe a rallentare e a tornare al cuore dell’educazione: non addestrare, ma accompagnare.
Non esiste la famiglia perfetta. Esiste la famiglia che non si arrende al cinismo. Non esiste la scuola perfetta. Esiste la scuola che fa alleanza. Non esiste la comunità perfetta. Esiste la comunità che sceglie la reciprocità: io ti aiuto oggi, tu mi aiuterai domani, perché crescere un figlio è un bene comune.
E se proprio vogliamo una frase da tenere in tasca, una sola, che non sia slogan ma bussola, io direi questa: un bambino non cambia quando lo schiacci. Cambia quando lo vedi. E quando lo vedi davvero, anche tu cambi con lui.
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