La sedia vuota

Una fiaba di Natale per adulti, dove la pace non è un canto… ma una scelta concreta di accoglienza, anche quando l’altro è “diverso” da come lo immaginavamo

Nel paese il Natale arrivava sempre nello stesso modo: luci appese troppo in alto, presepi nelle vetrine, musiche ripetute come un rosario laico, e poi quell’aria particolare che sa di mandarino, di legna umida, di promesse che vorrebbero essere nuove e invece tornano ogni anno con lo stesso vestito.

Francesco lo sentiva più degli altri, forse perché di mestiere ascoltava le parole e le crepe tra le parole. Era rientrato da pochi giorni, con la valigia ancora a metà e la testa piena di volti: sale riunioni, discussioni, abbracci veri e abbracci diplomatici. Nel suo telefono c’erano messaggi che iniziavano con “scusa se disturbo” e finivano con “non so più come fare”. Nel suo cuore c’era sempre la stessa domanda: ma quando è che smettiamo di fare la pace a parole e cominciamo a farla con la vita?

Il paese era piccolo, e proprio per questo sapeva essere grande nel bene e feroce nel male. Il bene era fatto di piatti condivisi senza chiedere perché. Il male era fatto di etichette appiccicate addosso alle persone come francobolli: “quello è così”, “quella è cosà”, “lui non cambia”, “lei è pericolosa”. Qui le differenze non erano un colore: erano una colpa.

E la parola “diverso” aveva assunto col tempo una forma allargata, quasi comoda: poteva significare lo straniero, certo, ma anche il vicino di casa che ama qualcuno “non previsto”; la donna che non rientra nelle caselle che la gente pretende; la coppia LGBT+Q di cui si parla sottovoce come se fosse una notizia e non una vita. Poteva significare la persona divorziata e riaccompagnata che entra in chiesa con la sensazione di dover chiedere permesso anche a Dio. Poteva significare chi combatte con la depressione e sorride per non farsi odiare, e poi a casa si spegne come una luce lasciata accesa troppo a lungo. Poteva significare perfino chi non ha “problemi” ma ha un problema più sottile: è ricco di sé stesso, pieno di ragione, pieno di certezze, incapace di lasciare spazio a un’altra storia.

E poi c’erano loro, i difensori del “si è sempre fatto così”, quelli che lo dicono come si recita un dogma; e i custodi del “le regole sono chiare”, che spesso lo usano non per orientare, ma per chiudere. Ecco: in quel paese il diverso non era solo chi veniva da fuori. Il diverso era chiunque disturbasse l’ordine delle cose, anche solo con la propria esistenza.

La sera del 23 dicembre, alla vigilia della vigilia, il parroco e il sindaco avevano convocato la “Cena della Comunità”. Un’idea bella, di quelle che si raccontano sui giornali: “nessuno resti solo”. Ognuno portava qualcosa, e la sala grande dell’oratorio sembrava un mercato gentile: teglie, dolci, pane caldo, lenticchie che profumavano di casa.

Francesco era arrivato presto, per aiutare. Aveva sistemato sedie, spostato tavoli, attaccato un cartello vicino all’ingresso con un pennarello nero: “Qui non si entra per essere uguali. Si entra per essere umani.” Lo aveva scritto senza pensarci troppo. Eppure, appena finito, aveva provato un brivido: come se qualcuno gli avesse toccato la spalla.

A un certo punto, mentre controllava che ci fossero posate sufficienti, vide una cosa stonata nel canto generale: una sedia, vicino alla finestra, rimasta vuota. Non perché mancasse qualcuno. Era vuota perché nessuno voleva sedersi lì. Era la sedia “di fronte” al posto che gli organizzatori avevano riservato a Karim.

Karim era arrivato in paese da pochi mesi. Non era un’ombra: lavorava, salutava, aiutava al mercato. Eppure era diventato subito un tema, non una persona. “È diverso”, dicevano. E la parola “diverso” qui aveva quel suono preciso: non una ricchezza, ma un rischio.

Ma quella sedia vuota, Francesco lo sentì con chiarezza, non era solo per Karim. Era per tutti. Era la sedia dei “diversi” di turno. Per chiunque, entrando, percepisse nell’aria una domanda non detta: “Ma tu… qui… sei compatibile?”

La sala cominciava a riempirsi. Qualcuno rideva, qualcuno già criticava sottovoce, come si fa quando si ha paura di essere felici senza controllare tutto.

Poi Karim entrò.

Non fece rumore. Era come se chiedesse permesso anche all’aria. Portava una busta con dentro dei datteri e un piccolo dolce, e si guardava intorno con quella prudenza gentile di chi non vuole sbagliare. Vide il posto preparato per lui e si fermò un istante, come se avesse già capito che quel posto non era un invito, ma una prova.

E insieme a lui, quasi nello stesso tempo, entrarono altri “diversi” che nessuno chiamava così perché erano “di casa” e quindi facevano più paura: Anna, divorziata e riaccompagnata, con un sorriso educato e una stanchezza che le prendeva gli occhi; Teresa, che combatteva con una depressione silenziosa e aveva scelto un posto vicino all’uscita, non per scappare, ma per respirare; e due ragazzi, Luca e Matteo, che non si tenevano per mano, non perché non si amassero, ma perché quel paese sapeva trasformare un gesto d’amore in un processo sommario.

Francesco li notò e sentì il cuore stringersi: questa cena non è una tavolata. È un campo minato. E noi fingiamo che sia solo un brindisi.

La gente iniziò a sedersi. E la sedia vicino alla finestra restò vuota, ostinata come un muro.

Francesco si avvicinò a un tavolo dove c’erano alcuni dei “pilastri” del paese: persone rispettate, generose, capaci di fare tanto—ma anche capaci di chiudersi come una porta quando la differenza bussava.

“Ragazzi,” disse con voce calma, “c’è una sedia vuota. È brutto.”

Uno alzò le spalle: “Che vuoi farci, Francesco. La gente si mette dove vuole.”

Un altro aggiunse: “Sì, però non obbligare. L’accoglienza non si impone.”

E un terzo, quello che aveva sempre l’aria di essere il custode del regolamento invisibile, chiuse la frase con un colpo secco: “Le regole sono chiare.”

Francesco sentì il sangue salire. Non perché odiava le regole. Le regole, quando servono, proteggono. Ma qui erano diventate un alibi per non rischiare l’umano.

Gli venne voglia di rispondere duro. Gli venne voglia di usare la vecchia tecnica del mondo: carota e bastone, premio e colpa. Se vi sedete lì, siete bravi. Se non vi sedete lì, siete cattivi. Funziona, a volte. Ma lascia ferite. E soprattutto non cambia il cuore: cambia solo la posizione delle sedie.

Fece un respiro lungo. Si ricordò di una verità che aveva imparato sulla pelle: se vuoi davvero accogliere l’altro, non devi vincere una battaglia. Devi aprire un processo.

Il processo non è spettacolare. Non fa applausi. Il processo è lento, a volte imbarazzante. È una strada, non un gesto. E in una strada bisogna restare.

Allora decise di non comandare. Decise di esporsi.

Andò verso la sedia vuota, la prese con entrambe le mani e la trascinò nel centro della sala. Il rumore delle gambe sul pavimento fermò per un attimo le voci. Tutti guardarono.

Francesco posò la sedia vicino al suo posto, ma lasciò un piccolo spazio tra la sua sedia e quella. Come si lascia spazio a una libertà.

Poi parlò, senza microfono. Una voce normale, ma con quella vibrazione che arriva quando uno non sta recitando.

“Questa sedia,” disse, “non è solo per Karim. Questa sedia è per ogni persona che entra qui e si chiede se deve mimetizzarsi per essere accettata. È per chi viene da lontano, sì. Ma anche per chi vive accanto e si sente fuori posto perché ama in modo diverso. È per chi è divorziato e riaccompagnato e si sente guardato come un errore. È per chi lotta con la depressione e non ha più forza di spiegarsi. È per chi è ricco di sé stesso e non se ne accorge, e per chi è così certo di avere ragione da non ascoltare più nessuno. È per quelli del ‘si è sempre fatto così’ e per quelli del ‘le regole sono chiare’, quando quelle frasi diventano muri.”

Si fermò un istante. La sala era immobile.

“Non voglio fare il Natale corretto,” continuò. “Voglio fare il Natale vero. Se qualcuno vuole sedersi qui accanto a me, è il benvenuto. Non per dimostrare qualcosa. Per cominciare un processo.”

Nessuno applaudì. Non era un discorso da applauso. Era un invito che metteva a nudo.

Si sedette. La sedia accanto a lui restò vuota per qualche secondo che sembrarono minuti.

Francesco sentì il cuore battere forte. Non per paura dell’altro. Per paura di noi: del nostro bisogno di controllo, della nostra capacità di usare parole alte per giustificare gesti piccoli.

Poi accadde una cosa strana, una di quelle cose che nelle fiabe succedono e nella vita reale succedono comunque, ma noi le chiamiamo “coincidenze” per non dover cambiare.

Una signora anziana, che nessuno ascoltava mai davvero perché parlava piano, si alzò con il suo piatto di pasta al forno e venne verso di lui. Aveva le mani segnate e gli occhi lucidi.

“Mi siedo io,” disse. “Perché ho perso un figlio e so cosa significa restare senza posto.”

E si sedette.

Il silenzio nella sala cambiò consistenza. Non era più silenzio di giudizio. Era silenzio di ascolto.

Dopo di lei, un ragazzo si alzò, uno che di solito scherzava su tutto per non sentire niente. Si sedette vicino a Karim e gli tese la mano.

“Ciao,” disse. “Io sono Marco.”

Karim lo guardò come si guarda una porta che finalmente si apre. “Karim,” rispose. E la parola “Karim” in bocca sua sembrò meno pesante.

Poco più in là, Luca e Matteo restarono fermi, incerti, come due persone che hanno imparato a chiedere scusa per la loro felicità. Teresa guardava il tavolo e contava le respiri come si contano le possibilità.

Francesco non li chiamò. Non li mise sotto i riflettori. L’accoglienza non è esibizione. È spazio.

Piano piano, senza proclami, altri si spostarono. Non tutti. Alcuni restarono fermi, irrigiditi, a difendere il loro piccolo muro come fosse una patria. Ma qualcosa era iniziato.

Ecco il processo: non l’unanimità, ma il primo passo.

A metà cena, mentre la sala riprendeva a respirare, Francesco si ritrovò accanto a Karim. Non perché lo avesse programmato, ma perché la vita, quando smetti di controllarla, sa organizzare meglio di te.

Karim mangiava poco. Ascoltava molto.

“Come stai?” gli chiese Francesco.

Karim esitò. Poi rispose in italiano lento: “Sto… meglio. Quando qualcuno… si siede.”

Francesco sentì una fitta. Non era retorica. Era fame di umanità.

“Scusami,” disse. “Non per me. Per noi.”

Karim fece un gesto con la mano, come a dire “non importa”, ma poi aggiunse qualcosa che Francesco non dimenticò più:

“Importa. Però… se oggi cambia… domani è meno difficile.”

Una frase semplice. Ma dentro c’era una teologia intera: il domani si alleggerisce quando oggi qualcuno sceglie.

Più tardi, durante i dolci, qualcuno tirò fuori il tema che in paese era sempre pronto come un coltello sul tavolo.

“Va bene tutto,” disse un uomo, “ma non possiamo fare finta che le differenze non esistano.”

Francesco annuì. “Le differenze esistono,” rispose. “E meno male. Il problema non è la differenza. È quando la differenza diventa un alibi per non amare.”

L’uomo scosse la testa. “Facile parlare.”

“Non è facile,” disse Francesco. “È per questo che è Natale. Se fosse facile, sarebbe solo una cena.”

Qualcuno sorrise. Ma era un sorriso che faceva male e bene insieme, perché la verità quando arriva non fa sempre bene subito.

Francesco continuò, senza fare il predicatore, ma con la fermezza di chi vuole bene:

“Accogliere l’altro nella sua fragilità non significa dire sì a tutto. Significa dire: ‘io non ti riduco alla tua ferita, e non riduco me alla mia paura’. Il processo è questo: restare umani mentre impariamo a stare insieme.”

Fu allora che successe una cosa piccola e decisiva.

Anna, divorziata e riaccompagnata, era rimasta defilata. Aveva parlato poco, come chi ha imparato che qualsiasi parola può essere usata contro di te. A un certo punto si alzò con due bicchieri d’acqua e si avvicinò a Teresa.

“Ti va se mi siedo accanto?” chiese.

Teresa alzò gli occhi. “Sì,” disse piano, come se quella sillaba le costasse fatica e coraggio.

Anna si sedette. Non disse nulla di speciale. Le passò solo il bicchiere. E quel gesto semplice fu una predica più forte di mille discorsi: non ti capisco fino in fondo, ma ti sto vicino.

Poco dopo, Luca fece un mezzo passo verso Matteo, e senza guardare nessuno gli sfiorò la mano con le dita, quel tanto che basta per dire: io non mi vergogno di te. Matteo ricambiò. Non era una dichiarazione. Era un inizio.

E dall’altro lato della sala, il custode delle regole, quello del “le regole sono chiare”, guardò la scena. Non disse niente. Ma smise di parlare per qualche minuto. E anche quello, per chi vive di certezze, è già un terremoto: il silenzio come primo atto di ascolto.

Quando la cena finì, la gente iniziò a raccogliere, a lavare, a rimettere a posto. Karim rimase a pulire i tavoli senza che nessuno glielo chiedesse. E proprio in quel gesto semplice c’era un messaggio: non voglio essere un ospite eterno. Voglio essere parte.

Francesco uscì fuori un momento. L’aria era fredda e trasparente. Guardò le luci del paese: alcune tremolavano, altre erano spente. Pensò che era così anche l’anima di una comunità. Non tutte le luci insieme. Ma abbastanza luci per non arrendersi al buio.

Alle sue spalle sentì passi. Era la signora anziana.

“È andata bene,” disse lei.

“È iniziata,” rispose Francesco.

La signora sorrise. “Bravo. Perché a Natale tutti parlano di amore. Ma l’amore vero è quando uno sposta una sedia.”

Francesco rise piano. “Sì. E quando non pretende che tutti la spostino subito.”

“Già,” disse la signora. “Però qualcuno deve cominciare.”

Francesco rimase a guardare il cielo, e gli venne in mente una frase che non era poesia, ma somigliava alla poesia: accogliere è credere che l’altro possa diventare casa senza smettere di essere altro.

Quella notte tornò a casa con una stanchezza buona. Non quella che svuota, ma quella che costruisce.

Il giorno dopo, la vigilia, ricevette un messaggio da Karim: “Grazie per ieri. Io oggi cucino. Se vuoi, vieni.”

Francesco guardò quel messaggio e capì che la fiaba non era finita. Perché la fiaba per adulti non si chiude con “vissero felici e contenti”. Si chiude con una domanda: e tu, domani, quale sedia sposterai?

Perché il Natale, alla fine, non è una data. È una decisione.

#comunicazionerelazionale #empatiadigitale

@Riproduzione riservata Francesco Mazzarella

 

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