Si spengono le luci (e qualcuno resta al buio)

Il 2025 se ne va tra divorzi geopolitici, Giubilei chiusi, coscienze aperte a metà e un’umanità che continua a litigare sul ponte mentre la nave imbarca acqua.

Si spengono le luci. E non è solo una suggestione letteraria: è proprio la trama, degna del romanzo di Jay McInerney, che torna d’attualità. Il “matrimonio” tra Stati Uniti ed Europa scricchiola come quello di Russell e Corinne: non c’è un vero litigio, ma una distanza che cresce, fatta di silenzi, calcoli e reciproca sopportazione.

Donald Trump, tornato a pensare il mondo come un grande mercato con bandiere opzionali, pratica una filosofia a metà tra l’empirico e il cervellotico: soggettiva, muscolare, spesso incomprensibile persino a se stessa. L’Europa, Ucraina compresa, per lui è un partner commerciale tra tanti, non un’alleanza sentimentale. Con la Russia vale lo stesso principio: la guerra può finire domani o dopodomani, purché torni utile ai conti. Il vero chiodo fisso resta la Cina. È lì che si gioca l’egemonia economico-militare di un’America che teme di non essere più eterna. Il resto è contorno. Bruxelles compresa.

E tuttavia, miracolo dei miracoli, l’Europa pare aver capito. Prima l’antifona, poi la realtà. Si è desta, anche se con la lentezza tipica di chi si sveglia convinto che sia ancora presto. Rafforzerà la propria difesa, finalmente comune, perché nazionale non basta più, investirà in tecnologia per smettere di dipendere da chi la tratta come un cliente distratto, e comincerà a decidere aggirando l’ossessione dell’unanimità, che ha spesso funzionato come un elegante freno a mano tirato. Gli strumenti, in fondo, li ha sempre avuti. Ora, finalmente, sta provando a usarli.

Chiuso il capitolo 2025, si apre quello del 2026. O la va o la spacca. E questa volta non è una figura retorica. Intanto si chiude anche un Giubileo. A Bologna, nella Basilica di San Petronio, l’arcivescovo Matteo Zuppi abbassa il sipario liturgico ma invita a lasciare aperte porte ben più difficili: quelle delle case, delle comunità, delle coscienze. Porte che non fanno rumore, ma resistono.

Le sue parole, speranza, pace, alleanza sociale, vicinanza agli ultimi, suonano come una nota fuori spartito in un mondo che discute di missili e dazi con la stessa naturalezza con cui una volta parlava di raccolti. La speranza, viene da augurarsi, è che quell’omelia riesca a superare le mura più spesse: non quelle delle basiliche, ma quelle dei cuori duri di chi si contende il dominio del mondo come fosse una partita a risiko.

Il 2025, del resto, non sarà ricordato con nostalgia. È stato un anno di addii pesanti: alla cultura, allo spettacolo, allo sport, alla pace, con la scomparsa di figure che tenevano insieme l’immaginario collettivo meglio di molti trattati internazionali. Alcune guerre finiscono, altre iniziano, come se l’umanità non sapesse fare altro che cambiare campo di battaglia. I dazi diventano strumenti morali, le catastrofi naturali presentano il conto, e il pianeta, già malandato, osserva in silenzio la gara a chi lo distrugge più in fretta.

Sul fronte interno, scandali e corruzione restano protagonisti ovunque. L’Italia, come spesso accade, non manca l’appuntamento. Titoli che sembrano barzellette (“Noi con Hannoun”), consiglieri che mettono in imbarazzo i partiti e pretendono di mettere il bavaglio ai giornalisti: il tutto dà l’impressione di una corsa in discesa senza paracadute. Governo e opposizione, ciascuno a modo suo, faticano: il primo perché non ha davanti un’opposizione costruttiva ma solo polemica; la seconda perché non riesce a ricordarsi quale sia il suo mestiere. E non va molto meglio altrove, se in Francia destra e sinistra riescono a dividersi perfino su un omaggio nazionale a Brigitte Bardot.

Eppure, in questo mare agitato, qualche dato va riconosciuto. Il governo italiano porta a casa risultati non trascurabili, soprattutto sul piano internazionale. L’Italia viene osservata come una possibile guida dell’Unione. Non è poco, in tempi in cui scarseggiano le teste pensanti e ce ne vorrebbero il doppio solo per capire da dove cominciare.

Che cosa ci porterà il 2026?

La risposta migliore resta quella di un vecchio signore inglese che di crisi se ne intendeva: «Il politico diventa uomo di Stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni». Il problema, semmai, è capire quanti siano ancora interessati a diventarlo.

Buon anno 2026. Con moderata speranza, lucida ironia e la cautela di chi ha imparato che le luci si spengono in fretta, ma il conto resta acceso.

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