Il continente che chiamo Casa

Con Rocco siamo a casa, letteralmente. Ci accoglie a casa sua, Linguaglossa (CT). Tra le mura domestiche sorge infatti anche la cantina; le vigne, invece, si trovano a pochi chilometri dall’uscio di casa. Ci apre la porta Rita, moglie di Rocco, la quale ci offre già dai primi momenti, un assaggio della passione che lega il marito al mondo del vino e alla sua terra. Per Rocco, infatti, questa è a tutti gli effetti una seconda vita; ci dice di essere nato in vigna, letteralmente, ma riesce a tornare a “casa” solamente quando termina i suoi incarichi come ispettore fitosanitario per la regione Sicilia. Rita ci racconta che in parte è colpa sua se l’azienda non accresce la produzione; questo perché, come accade a tutte le mamme, lei pensa ai suoi figli, i quali stanno prendendo una strada diversa da quella del padre: il più grande è urologo all’ospedale Garibaldi di Catania, la più piccola è ingegnere in un’azienda produttrice di succhi. Le preoccupazioni delle madri, in fondo, sono sempre le stesse, da nord a sud, da est a ovest: lasciar liberi i figli di percorrere il proprio cammino. E’ un quadretto familiare che racconta un focolare che tutti noi abbiamo da qualche parte nelle nostre memorie.

Per la Sicilia, la vite è una coltivazione che giunge dal passato. Infatti, l’arrivo di tale pianta sull’Etna risalirebbe alla conquista del luogo da parte dei Greci. Perché siamo sicuri che i Greci conoscevano questa pianta? Perché attorno alla nascita della vite vi sono diversi miti. I più antichi, inoltre, non ne associano la nascita alle storie di Dioniso. Infatti, Ateneo, negli anni 193-197 d.C., ci racconta che Oresteo, figlio di Deucalione, si recò in Etolia e, in quei luoghi, una sua cagna partorì un ceppo. Quando, dietro suo ordine, questo fu interrato, ne nacque la pianta dell’uva. La cagna, secondo un filone interpretativo, sembrerebbe essere la rappresentazione simbolica del cane della costellazione di Orione, cioè la stella Sirio.

Il legame della Sicilia con la Grecia si può leggere anche attraverso il numero di storie che la leggenda ci tramanda. Ulisse, arrivato in Sicilia, incontra proprio su queste terre il gigante Polifemo che altro non sarebbe che una rielaborazione fantasiosa di quanto i Greci trovarono qui al loro arrivo: gli scheletri di una specie di elefante nano che viveva su queste terre in epoca preistorica. I Faraglioni di Aci Trezza, inoltre, sarebbero proprio le pietre che Polifemo scagliò contro Ulisse e i suoi compagni di viaggio dopo essere stato gabbato da “Nessuno”. Questo forte legame attraversa i secoli, a tal punto che, il simbolo di Catania è proprio l’elefante.

Ma dove nasce la storia di Rocco? Nasce con il nonno, che, come tanti, era emigrato in America in cerca di lavoro e una volta tornato decise di investire le proprie fortune acquistando del terreno. Vennero piantate le prime vigne e il vino venduto per lo più in Francia dove la filossera era oramai arrivata ovunque mietendo molte vittime. Le vigne dell’Etna, invece, furono tra le pochissime che riuscirono a salvarsi perché i suoli vulcanici e le condizioni climatiche sono stati una barriera a lungo insormontabile per questo parassita. Nonostante questo, ad un certo punto i vigneti diminuiscono, si decide di destinare sempre più terreno ad altre coltivazioni, ma non vi sono motivazioni specifiche a supporto di tali scelte che siano state tramandate fino ai giorni nostri. Rocco conosce ogni dettaglio della storia di questo luogo, e riesce a narrarci tutti gli aneddoti che lo riguardano; dai miti alla lingua, dall’architettura alle DOP, fino ai terroir che caratterizzano questo continente. Si, perché l’Etna è un continente nel continente. Le etichette che Rocco ha scelto per i propri vini, raccontano in qualche modo l’importanza che la Sicilia e l’Etna hanno per lui.

Oggi ci sono circa 1700 ettari vitati con una produzione totale di circa 7 milioni di bottiglie appartenenti a circa 350 aziende. Altro dato importante per capire l’Etna, è che il 70% delle bottiglie viene fatto dal 15% dei produttori; la polverizzazione è totale, perché molti, come Rocco, producono pochissime bottiglie, ma colme di passione. Aìtala, l’azienda di Rocco, deve in realtà il suo nome alla famiglia della moglie. Ha ottenuto la certificazione biologica e conta all’anno circa 1.400 bottiglie di Etna Bianco, 1.400 di Rosè, 2.000 di Syrah e 3.500 di Etna Rosso. Rocco ci accompagna in cantina, luogo che si trova al piano interrato di casa sua, sembra quasi surreale. Ogni sua bottiglia è etichettata e incapsulata a mano, in famiglia, in garage. Lascio a voi giudicare quanta poesia ci sia in questa narrazione.

La vendemmia è eseguita interamente a mano; le uve rosse, una volta diraspate, vanno direttamente in acciaio dove rimangono a fermentare per un periodo che va da quindici a venti giorni.

Il rosè, aggiunto alla produzione nel 2024, è frutto di una vinificazione in bianco delle uve di Nerello Mascalese. Le bucce durante la fermentazione permangono per un tempo molto breve, in modo da donare al vino un colore molto chiaro e mantenere il più possibile l’aroma fruttato. Questo vino è l’unico ad avere un nome: si chiama “Sisì” in onore di Silvia, la secondogenita.

L’Etna bianco di Aitala è fatto con l’80% di uve di Carricante, 10% di Cataratto, 5% di Inzolia e 5% di Minnella; viste le ridotte quantità, il blend viene fatto direttamente in vigna. Ogni contrada, qui, ha la sua ricetta e ogni vino è differente, grazie ad un terroir che evolve di chilometro in chilometro. Il nome della contrada, un po’ come i cru francesi, è riportato in etichetta, quasi a voler sottolineare l’indipendenza del gusto, frutto dell’originalità di ogni quadratino di terra. Qui siamo in Contrada Martinella, che deve il proprio nome alla “Mattina”, perché siamo ad Est, proprio dove sorge il sole.

L’Etna Rosso è invece 95% nerello mascalese, 5% nerello cappuccio. Assaggiamo l’annata 2021 e subito a seguire l’annata 2022. Non c’è botte, si sente l’astringenza del tannino, più nel 2021 che nel 2022, a testimonianza che la vigna ha un carattere mai uguale, capace sempre di sorprendere e mutare. Si percepisce la liquirizia alle spalle dei frutti rossi. Forse più di tutto però, percepiamo l’aura familiare dietro a questo vino, le parole di Rocco ci parlano non solo di terra, non solo di sapori, ma anche dell’aiuto reciproco di tutti i piccoli allevatori della zona, pronti ad offrire ciò che manca per crescere insieme. Cosa mi fa vedere questo vino? Storie. Storie attorno ad un cammino, che arrivano dal passato, dalla memoria di Rocco che, in qualche modo, tramanda aneddoti ed esperienze uniche e caratteristiche. È un fiume in piena, richiama alla mia memoria certi racconti che ascoltavo da bambina quando andavo in campagna dai nonni sebbene all’epoca, forse, non potessi percepirne la potenza. Ora, da adulta, con un buon rosso in mano, è come se quei racconti tornassero amplificati dalla consapevolezza, pieni di quella bellezza che è rimasta latente, anche se scritta nelle mie emozioni tanto tempo fa.

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