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Qualche ombra del 2 giugno

Francesco Mazzarella

Le due Italie già si mostravano nel 1946

2 giugno 1946. Il referendum si svolse in un’Italia sconfitta, che avrebbe firmato qualche mese dopo il trattato di pace, il famoso Diktat. Era un’Italia ancora sotto il controllo di un governo militare straniero d’occupazione. In intere regioni dell’Italia centro-settentrionale, dove il predominio delle sinistre era assoluto, non si tenne nessuna manifestazione monarchica.
In queste zone operavano ancora le “volanti rosse”, che quasi impunemente assassinavano gli avversari politici nei numerosi “triangoli della morte”. Nella stessa Roma le manifestazioni di massa monarchiche, come ad esempio quella del 10 maggio 1946, erano assaltate dagli “ausiliari di Romita”, ex partigiani inquadrati nella polizia. A Napoli i cortei monarchici erano attaccati a colpi di bombe a mano come accadde in Via Foria il 15 maggio 1946.
Il 2 giugno si votò nella massima calma. Ma il clima delle settimane precedenti era stato, usando uno slogan del socialista Pietro Nenni: “O la repubblica o il caos”. Il ministro comunista delle Finanze, Mauro Scoccimarro, parlando a Frascati minacciò la rivoluzione in caso di vittoria monarchica al referendum. Sandro Pertini chiedeva la fucilazione del Luogotenente Umberto di Savoia. In molti benpensanti per evirare il caos decisero di votare repubblica.
un’altra leggenda da sfatare, è che per la prima volta poterono votare le donne per elezioni politiche. Sembra che per favorire la vittoria della repubblica, il governo composto nella quasi totalità di repubblicani, emise un decreto legislativo, il numero 69/1946, contrario Re Umberto – dalla caduta del fascismo al 1948, il governo godeva anche del potere legislativo – nel quale si privavano del diritto di voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia e dell’Alto Adige. Questi cittadini sarebbero stati consultati “con successivi provvedimenti”, mai avvenute. Si dimenticarono della Libia – allora territorio metropolitano. I cittadini italiani residenti in Libia furono privati del diritto di voto. Forse erano già convinti di cedere queste parti del territorio nazionale a stati esteri, oppure pensavano che gli abitanti potessero votare “Monarchia”, ritenendo che un’Italia monarchica potesse difendere meglio la permanenza delle loro terre all’Italia. Furono inoltre esclusi dal voto i prigionieri, gli sfollati, gli epurati. Gli epurati erano coloro che essendosi compromessi con il Regime, furono privati del diritto di voto, comprendendo anche i loro familiari. Sorge però una domanda spontanea: Ma chi, a parte una piccola minoranza, non si era compromesso col Fascismo durante il Ventennio? Nei comuni c’era molta faziosità. In totale furono privati del diritto di voto circa il 10 percento degli italiani, esclusi i “libici”.
Un altro importante dato fu che Il governo non comunicò in anticipo, il numero degli aventi diritto al voto. Anzi, secondo molti studiosi, dalle urne non potevano venir fuori tutte quelle schede. I conti non tornano tra i “risultati” del referendum, i probabili aventi diritto al voto e la popolazione italiana del tempo. Ci sarebbero stati circa due milioni di voti in più nelle urne. Sembra che numerose persone ricevettero 2 o 3 certificati elettorali. Lo stesso accadde per molti defunti. Ma prendendo per buoni i “risultati” ufficiali la repubblica avrebbe vinto per circa 250 mila voti in più rispetto al numero dei “votanti” ufficiali. Su circa 35 mila sezioni elettorali, furono presentati circa 21 mila ricorsi. Furono esaminati e respinti tutti in meno di 15 giorni. Mentre la Corte di Cassazione esaminava i ricorsi, il governo, prendendo per buoni i risultati provvisori del referendum, emise la notte del 13 giugno 1946, una dichiarazione con la quale trasferiva le funzioni di Capo dello Stato al Presidente del Consiglio in carica. il governo pose Umberto II di fronte al fatto compiuto. Il quale, con i risultati ancora provvisori e sub judice, fu ridotto al rango di privato cittadino e posto di fronte al dilemma: partire per l’esilio o scatenare una nuova guerra civile.

Una nuova guerra civile avrebbe comportato, oltre a nuovi lutti, la probabile perdita di parti del territorio nazionale a favore della Francia, della Jugoslavia e dell’Austria e forse la secessione d’alcune regioni. In poche ore a Napoli furono raccolte decine di migliaia di firme a sostegno di un manifesto del Movimento Separatista del Mezzogiorno d’Italia, dell’ing. Carlo Rispoli. I promotori sostenevano che con la vittoria repubblicana si era sciolto il Patto del 1860 con il quale si era accettata l’Unità d’Italia sotto la dinastia dei Savoia. Volevano ricostituire il Regno delle Due Sicilie con Re Umberto. Una simile dichiarazione il Movimento per l’Indipendenza Siciliana la dichiarò ad Enna il 10 giugno. Volevano un Regno di Sicilia con sovrano Umberto di Savoia. Incidenti, con morti e feriti, scoppiarono a Palermo, Taranto, Bari, Messina, e soprattutto a Napoli. A Napoli ci furono una dozzina di morti e moltissimi feriti.
A Napoli aveva votato per più dell’80%, in favore della Monarchia. Per controllare la situazione napoletana il governo, nel la persona del ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, non aveva trovato niente di meglio che militarizzare la città, facendovi affluire numerosi reparti di polizia ausiliaria. Questi reparti, alle dirette dipendenze dello stesso ministro, erano formati per la maggior parte da ex partigiani comunisti del nord. Da qui l’appellativo di “guardie rosse di Romita”. Usarono sempre con la mano pesante nei confronti della popolazione, considerata alla stregua di un nemico ideologico.

Il sangue a Napoli ricominciò a scorrere la sera del 6 giugno 1946. Quella stessa notte, al numero 311 di Corso Umberto I si costituisce il Movimento Monarchico del Mezzogiorno (uno dei nuclei fondatori del futuro Partito Nazionale Monarchico) e si adotta il simbolo di “Stella e Corona”. La mattina del 7 giugno, a Napoli si diffonde la notizia dell’arrivo d’Umberto. Si forma, così, un imponente corteo che, accompagnato dalle note solenni della “Marcia Reale” andò ad accogliere l’ex sovrano. Alla testa del corteo, un giovane scugnizzo di 14 anni, Carlo Russo, completamente avvolto in un grande tricolore con lo stemma sabaudo. È armato solo di quella bandiera. È deciso a passare, ma i mitra degli ausiliari sparano ad altezza d’uomo. Si contano molti feriti. Uno dei primi a cadere è Carlo Russo, che morirà, dopo un’atroce agonia, due giorni dopo. L’8 giugno muore lo studente Gaetano D’Alessandro, di 16 anni. Il ragazzo stava tornando a casa dopo una manifestazione monarchica di protesta per le violenze del giorno prima. Aveva alle spalle un grande tricolore con lo stemma sabaudo. Nei pressi di Piazza dei Vergini, è fermato da una camionetta piena d’ausiliari. Gli intimano provocatoriamente di consegnare la bandiera. Il ragazzo sfugge ai poliziotti e si arrampica sul cancello, Con fredda determinazione, con una raffica di mitra uccide il ragazzo ancora aggrappato al cancello. Nel cadere, il suo corpo si avvolge in quel tricolore che ha difeso a con la vita. Ora anch’egli ha una bandiera per sudario.


BARTOLONE. L’11 giugno è una giornata di passione e di sangue. Al balcone della Federazione del PCI di Via Medina, accanto alla consueta bandiera rossa con falce e martello, è esposta una strana bandiera tricolore. Si vede l’effigie di una testa di donna turrita nel campo bianco al posto del tradizionale stemma sabaudo. A Via Medina scoppia l’inferno. I feriti si contano a decine. Muore in un lago di sangue, sempre colpi to da pallottole, l’operaio monarchico Francesco D’Azzo. Le autoblindate della Celere hanno avuto finalmente ragione delle rudimentali barricate, alzate dai monarchici, e stanno per avventarsi con i loro terribili caroselli sui dimostranti, quando la studentessa Ida Cavalieri fa barriera col proprio corpo inerme nel disperato tentativo di fermarne la corsa. L’ordine è disperdere la folla, costi quel che costi. A Napoli, quel giorno, la vita umana non vale niente. Così Ida Cavalieri è stritolata dagli automezzi repubblicani. Non accade il miracolo di Piazza Tienanmen, a Pechino. Un appartenente alla Regia Marina, Vincenzo Guida cerca di organizzare la resistenza, innalzando una grande bandiera sabauda su di un palo. È colpito mortalmente alla nuca da un colpo di un moschetto, sparato da un celerino. Quando la strage è finita arriva la polizia militare americana che, insieme ai Reali Carabinieri, a stento riesce a sottrarre i celerini e gli attivisti comunisti alla collera popolare. Alla fine della tragica giornata di sangue, si conteranno, oltre i morti circa 50 feriti gravi. Tra questi ultimi, tutti colpiti da armi da fuoco, Gerardo Bianchi di 15 anni, Alberto De Rosa di 17, Gianni Di Stasio di 14, Antonio Mariano di 12, Giovanni Vibrano di 11, Raffaele Palmisano di 10 e Tino Zelata di 8. Gli altri feriti avevano in media 20-30 anni.
Il Re partì. Non voleva avere sulla sua coscienza di cattolico osservante i lutti di una nuova guerra civile e la fine dell’Unità nazionale conquistata durante il Risorgimento. Vi furono promesse e pressioni sulla Cassazione. Alla fine, fu accolta a maggioranza, 12 contro 7, compreso il voto favorevole alle tesi monarchiche del presidente della Corte, Giuseppe Pagano, sostenute dal parere favorevole del procuratore generale Massimo Pilotti, la tesi repubblicana: è “votante” solo colui il quale abbia compiuto “una manifestazione positiva di volontà”. In pratica un milione e mezzo circa di votanti, in bianco o nulli, non avevano votato. Sicché la presunta maggioranza per la repubblica si ridurrebbe a 200 mila voti circa. Il 1° luglio 1946, sulla Gazzetta ufficiale della repubblica italiana fu pubblicato il decreto del passaggio dei poteri di Capo dello Stato da De Gasperi a De Nicola, si precisò che De Gasperi deteneva tali poteri dal 18 giugno, cioè dal giorno in cui la Corte emise la sentenza definitiva.

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