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L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO NELLE AZIENDE: EMOZIONE E MOTIVAZIONE

Silvia Raspa

Nell’ambito dell’organizzazione aziendale, particolare rilevanza va assumendo, in misura sempre più ampia, la tematica relativa al corretto e più funzionale impiego delle risorse umane.

Effettivamente, tra i tanti fattori considerati, quello emotivo e delle inclinazioni individuali costituisce, oggi, il punto cruciale del fervente dibattito tra economisti e psicologi, volto, in ultima analisi, a perseguire migliori risultati gestionali.

La questione presenta numerosi profili d’interesse, anche dal punto di vista squisitamente sanitario e della salute del lavoratore, come emerge dalla crescente attenzione che il legislatore e gli operatori di settore destinano a patologie correlate fattori emotivi di stress presenti o comunque eziologicamente riconducibili agli ambienti lavorativi.

In via approssimativa e preliminare, va osservato che nella fase iniziale del capitalismo industriale la funzione del personale era semplice, prevalendo una concezione di tipo contrattuale della forza lavoro.

Ed infatti, il personale era chiamato ad assolvere compiti che ben potevano essere classificati come segue:

  1. compiti di tipo amministrativo (paghe e contributi, pratiche disciplinari);
  2. compiti di selezione ed addestramento;
  3. compiti, lato sensu, operativi, in qualità di prestatori d’opera in vari segmenti d’impiego.

Dalla metà del secolo scorso, alcuni teorici introducono – in questo rigido schema – una nuova variabile, ovvero la motivazione. In altri termini, si intese così evidenziare che, per ottenere la cooperazione efficiente dei dipendenti non bastava progettare le condizioni lavorative e selezionare i migliori elementi, ma era necessario motivarli[1].

Il lento ma costante processo evolutivo che ha indotto ad analizzare le componenti emotive della prestazione di lavoro attraversa delle fasi significative, idonee a dar conto del crescente valore assunto dalla motivazione, in ogni ambito economico – produttivo.

 

 

  1. L’EVOLUZIONE NELLA CONCEZIONE DELLA RISORSA LAVORATIVA:

DA RISORSA “LAVORO” A RISORSA “UMANA”

 

Oggi le aziende si riferiscono sempre più frequentemente al concetto di “risorse umane”: locuzione, questa, divenuta assai familiare alla platea degli operatori economici, ma la cui storia è, invero, molto recente[2].

Fino a pochi anni fa, infatti, si parlava esclusivamente di “mano d’opera”, avendo come modello di riferimento la “catena di montaggio”, in cui gli uomini giocavano un ruolo analogo a quello di un ingranaggio. Il lavoro si traduceva dunque, essenzialmente, in una mera esecuzione di ordini impartiti dall’alto. Tale modello industriale si basava, in buona sostanza, su una organizzazione di forma piramidale, dove la responsabilità, la possibilità di prendere decisioni, l’autonomia nell’organizzare il lavoro, nonché la conoscenza degli obiettivi ultimi, diminuivano man mano che si discendevano i gradini di questa piramide ideale.

Oggi quest’epoca è quasi del tutto tramontata e si fa comunemente riferimento ad un tipo di società classificata come “post – industriale”.

Dalla tradizionale organizzazione verticistico–piramidale si passa, così, ad una di tipo orizzontale, in cui le persone (seppur con ruoli e con gradi differenti) partecipano tutte degli obiettivi e delle finalità ultime dell’azienda, sono tutte chiamate a risponderne oltre che godere dei benefici relativi.

In tale organizzazione assume un certo rilievo anche la suddivisione del lavoro in team, ovvero in squadre[3] dove ciascuno partecipa alla realizzazione di un progetto particolare, dando il proprio contributo specifico, ma al tempo stesso confrontandosi e rapportandosi continuamente con gli altri membri del gruppo. Un vero e proprio gioco di squadra, in cui la vittoria dipende non tento dalla bravura del singolo, quanto piuttosto dalla capacità di collaborare.

Capiamo quindi perché le aziende guardino sì alle competenze tecniche (banalmente, a ciò che uno sa ed è in grado di fare efficacemente), ma non conferendogli più tutta quella importanza che avevano in passato.

Oggi, al primo posto si colloca, tra le esigenze delle aziende, il “saper essere”, le caratteristiche della personalità, quelle che uno ha già sviluppato e quelle che più facilmente potrebbe sviluppare attraverso la formazione.

Le aziende sanno bene, infatti, che non sono né la scuola né l’università a dare tutte le qualità necessarie per lavorare bene in gruppo. Non è certo il percorso di studi ad insegnare la capacità di assumersi le proprie responsabilità o ancora la flessibilità, o il saper passare rapidamente da un problema ad un altro, o infine a fornire le adeguate motivazioni per dare il massimo di se stessi in un determinato lavoro.

Proprio quest’ultimo aspetto, ossia la motivazione, è proprio un fattore decisivo: solo una persona motivata può svolgere al meglio il proprio lavoro. Motivazione non vuol dire, però, avere delle ragioni in senso generico o, ancor meno, fare solo ciò che piace. Motivazione è volere il bene dell’azienda, in quanto questo costituisce anche il proprio bene.

In tale ottica, dovrebbero essere definitivamente superate le concezioni Tayloristiche (che si rifacevano al pensiero di Frederick Taylor – 1856/1915), che riconducevano la psicologia del lavoro ad un concetto ritenuto da alcuni studiosi riduttivo, meccanicistico, reificante del lavoro, in cui si dimentica la “valenza soggettiva del lavoratore[4].

Ciò nonostante, in concreto, il modo di considerare il lavoro in azienda è ancora fortemente legato ad uno spirito meccanicistico. Da molti anni si parla di “autonomia decisionale”, “assunzione di responsabilità” e “flessibilità operativa” ma, di fatto, le organizzazioni sono costruite attorno al concetto di job description. In altre parole, i progettisti dell’organizzazione hanno la presunzione di descrivere nel dettaglio quali dovranno essere i compiti e le mansioni di ogni dipendente.

Ogni persona conosce quindi, sin dall’inizio, cosa dovrà fare e quali saranno i compiti rientranti nelle proprie attribuzioni. I lavoratori sembrano, in tal guisa, attori di teatro che, per la buona riuscita della commedia, devono limitarsi a recitare un copione standard scritto da altri.

Orbene, il modello della job description ha sicuramente condotto a maggiore razionalità e struttura dell’organizzazione, con discreti risultati in epoche meno turbolente, tuttavia, oggi, il medesimo modello rappresenta una delle principali cause di apatia lavorativa[5]. E’ stato infatti suggestivamente affermato che la job description favorisce “lo spegnimento del cervello e della creatività delle persone[6].

Avremo modo di dimostrare diffusamente – nel prosieguo – come altre metodologie organizzative possano influire sullo scenario entro il quale si svolge il lavoro, migliorando l’efficienza e l’efficacia della produzione, oltre che producendo benefici effetti dal punto di vista della prevenzione nei confronti di possibili situazioni di stress o disagio psicologico.

 

 

 

 

  1. LO STUDIO  DEI  FATTORI  MOTIVAZIONALI

 

L’importanza del ruolo dei fattori motivazionali in capo ai lavoratori inizia ad essere teorizzata ed analizzata, con puntuale dovizia d’analisi scientifica, da Maslow (1954), il quale incentra la propria riflessione sui bisogni individuali che stanno alla base della motivazione, nonché sulla articolazione dei processi decisionali sottostanti alla motivazione medesima[7].

Ed infatti, la precedente dottrina in merito all’organizzazione del lavoro risaliva alla figura di Taylor, il quale – per primo ed in via embrionale – ha enucleato una serie di postulati che non si esaurivano nella considerazione del lato tecnico o tecnologico, ma erano in maniera notevole (e pur con i limiti che abbiamo sopra segnalato) rivolti all’uomo in quanto fornitore di forza lavoro.

Per completezza di trattazione, dunque, nelle pagine che seguono verranno descritti (evidenziandone i profili di maggior criticità) i vari step attraverso i quali si è addivenuti alle moderne concezioni dell’organizzazione del lavoro, segnatamente riferite agli aspetti motivazionali ed emotivi in genere.

Come si è anticipato, Taylor[8] partiva da una serie di considerazioni che possono essere intese come il vero e proprio fondamento del suo modo di concepire l’organizzazione del lavoro. Esse inerivano, in particolare, ai seguenti aspetti:

  1. selezione del personale: se gli uomini sono diversi per quanto concerne le attitudini da essi possedute (in particolare, l’Autore faceva riferimento a quelle di tipo fisico), sarà economicamente più conveniente per l’azienda assumere quelle persona che dimostrano di possedere tali abilità in maniera maggiore rispetto agli altri. Sarà pertanto opportuno costruire delle prove (tests) attraverso le quali i soggetti possano dimostrare in quale misura possiedono quell’attitudine che si ritiene venga implicata nello svolgimento di quel determinato lavoro, al fine di assumere poi solo coloro che avranno dato le prestazioni migliori;
  2. l’addestramento: dato che gli individui, nell’esecuzione di uno stesso lavoro, adottano metodi e procedure diverse (molte delle quali tra loro risultano essere scarsamente funzionali e comportano sprechi di energia, movimenti inutili, tempi di inattività, ecc.) sarà opportuno che venga studiato, da tecnici addestrati allo scopo, quale sia il metodo più economico possibile, cioè quello che comporta il minimo sforzo ed il massimo rendimento nella stessa unità di tempo;
  3. la divisione del lavoro: dalla constatazione che è più facile e richiede meno tempo apprendere un lavoro che implica solo poche operazioni per essere eseguito e dall’idea che eseguendo sempre le medesime operazioni un operaio riesce rapidamente a raggiungere il massimo rendimento, sia quantitativo che qualitativo, Taylor derivò l’importantissimo principio della divisione (parcellizzazione) del lavoro. In base a tale principio, l’intero processo lavorativo, che prima veniva svolto da uno o pochi operai, venne suddiviso in varie fasi ciascuna delle quali veniva svolta da un operaio diverso specializzato nell’esecuzione della stessa.

Questo modo di organizzare la produzione fornisce sicuramente dei risultati positivi per quanto attiene ai livelli di produttività, ma presenta parecchi inconvenienti. Nel lavoro parcellizzato, infatti, oltre alla alienazione tipica del modo di produrre capitalistico (nel quale l’operaio si sente espropriato del proprio lavoro a vantaggio del “padrone”) c’è una ulteriore forma di alienazione, derivante dalla “perdita di significato compiuto[9], in quanto il lavoratore che compie una determinata operazione non è consapevole – nella maggior parte dei casi – del senso e dell’importanza che essa riveste nel determinare il prodotto finito. Inoltre, la ripetitività delle azioni ed il ritmo al quale sono compiute provocano, ex necesse, monotonia, noia, stress, ansia, ecc.. La conseguenza di tutto ciò non può che essere quella di provocare il rifiuto di questo tipo di lavoro, e si manifesterà nelle forme più disparate di reazione (disaffezione, assenteismo, sciopero) da parte degli operai

  1. il cottimo: posto che gli uomini reagiscono in maniera diversa allo stimolo lavorativo, e posto che il loro rendimento è molto spesso in funzione della retribuzione che percepiscono, sarà necessario incentivarli alla produzione pagandoli in ragione della qualità e/o quantità del lavoro che svolgono. In tale maniera i dipendenti, sospinti dalla sete di guadagnare il più possibile, lavoreranno al massimo delle loro possibilità. Siffatta metodologia di retribuzione è stata definita “cottimo”.

 

E’ bene puntualizzare – per concludere sul punto – che Taylor era un ingegnere, privo di alcuna formazione psicologica, ma si imbatteva in temi fortemente permeati da aspetti di carattere psicologico, e sollevava questioni che avrebbero richiesto l’intervento chiarificatore di approfondimento scientifico specialistico.

Al concetto tayloristico di lavoro venivano, invero, a mancare: valenze soggettive (pensieri, emozioni, dinamiche), dimensioni relazionali tra individui, analisi del contesto sociale ed organizzativo.

 

Analizziamo adesso, brevemente, il pensiero di Elton Mayo, un noto psicologo australiano la cui opera di elaborazione appare estremamente rilevante per il tema che ci occupa, giacché Mayo legò il suo nome ad una serie di esperimenti condotti presso gli stabilimenti Hawtorne della General Electric.

In particolare, nel 1923, Mayo introdusse delle pause di 10 minuti da concedere agli operai al mattino ed al pomeriggio. Con questi accorgimenti, la produttività si incrementò notevolmente, tanto da indurre i dirigenti dell’azienda a prevedere che le pause fossero concesse per “meriti”. Quest’ultima innovazione, però, non ebbe gli effetti sperati, ma fece aumentare l’assenteismo e diminuire la produttività. Di conseguenza, si tornò alla fruizione collettiva delle pause, e l’assenteismo venne di colpo eliminato.

Dai suoi esperimenti, Mayo[10] trasse alcune considerazioni assai pregnanti:

  1. è opportuno ragionare in termini di incentivi di gruppo, anziché individuali;
  2. l’incarico gerarchico dovrebbe essere utilizzato per indicare al gruppo gli obiettivi dell’organizzazione. In tal modo, il gruppo avrà una ulteriore motivazione, oltre a quella del cottimo, consistente sapere di lavorare per il raggiungimento di un obiettivo noto. Il gruppo, inoltre (ed in questa ottica), andrebbe responsabilizzato (per quanto di competenza) in ordine alla scelta delle modalità migliori per il raggiungimento degli scopi aziendali;
  3. partecipando alla vita aziendale, il dipendente potrà aspettarsi la soddisfazione di alcuni dei suoi più importanti bisogni emotivi. In una certa misura, egli potrà sentirsi anche moralmente partecipe e impegnato nello sforzo aziendale. Da parte sua, l’azienda si attenderà un grado maggiore di lealtà, di impegno e di identificazione con i suoi scopi.

In un’ottica più marcatamente organizzativa e orientata al perseguimento di obiettivi di efficienza aziendale, gli esperimenti condotti da Mayo parvero attestare, in ultima analisi, che la produttività fosse intimamente correlata all’atteggiamento nei confronti del lavoro e che la possibilità di trasmettere attivamente ad altri i propri sentimenti e di essere ascoltati e compresi erano essenziali per un armonioso sviluppo dei fattori motivazionali e psicologici dei lavoratori.

 

Tralasciando, ora, le elaborazioni intermedie condotte in subiecta materia, passiamo alla disamina del capostipite delle teorie fondate sui “bisogni”, ovvero a Maslow (cit.). Maslow focalizza la sua attenzione sullo studio della personalità come struttura unitaria che trova, nell’analisi della motivazione, il momento di maggiore approfondimento[11].

La “persona” si configura come una totalità portatrice di bisogni e desideri, che caratterizzano significativamente ogni aspetto singolo e l’intero equilibrio della vita psichica. Sulla base di queste premesse l’elaborazione di Maslow approda alla constatazione dell’esistenza di cinque categorie di bisogni:

  1. bisogni fisiologici: sono direttamente connessi alla sopravvivenza ed hanno un livello di intensità più importante alla nascita e nel periodo di sviluppo;
  2. bisogni di sicurezza: emergono in seguito alla soddisfazione dei bisogni fisiologici, e comprendono la stabilità, la dipendenza, la protezione, la libertà dalla paura;
  3. bisogni di appartenenza e di attività sociale: assumono un’importanza primaria per l’individuo quando i bisogni fisiologici e quelli di sicurezza siano stati sufficientemente appagati e gratificati. Si traducono nelle “necessità associative”, che derivano dall’esigenza di essere accettati dagli altri, di scambiare amicizia ed affetto;
  4. bisogni di stima e status: rappresentano necessità di stima da parte di se stessi (sentimenti di adeguatezza e di autofiducia) e da parte degli altri m(desiderio di prestigio e di apprezzamento);
  5. bisogni di autorealizzazione: emergono quando anche i bisogni di stima hanno trovato soddisfazione, riflettono la tendenza a realizzare ciò che si è in potenza di fare e corrispondono al “desiderio di divenire sempre di più ciò che idiosincraticamente si è al desiderio di divenire tutto ciò che si è capaci di diventare”.

 

I bisogni descritti da Maslow sono quindi rappresentabili, graficamente, come una piramide, alla base della quale troviamo quelli fisiologici ed al vertice quelli di autorealizzazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I primi quattro tipi di bisogni, sia pure in misura differente, concernono “motivazioni da carenza” e mirano generalmente alla riduzione della tensione; i bisogni di autorealizzazione corrispondono, invece, a vere e proprie “motivazioni di crescita” che, al contrario, comportano una ricerca ed un aumento della tensione.

Il limite della teoria di Maslow consiste, secondo gli studi più recenti[12], nell’annullamento della realtà esterna a favore di una ipotetica unidimensionalità interna nello sviluppo dell’individuo.

Un altro polo di raggruppamento delle teorie motivazionali, oltre a quello incentrato sui “bisogni”, è rappresentato dall’orientamento sulla “giustizia” e sulla “equità[13]. Secondo questa dottrina il principio basilare è che qualsiasi condizione di non equità, sia favorevole che non favorevole, determina tensione nell’individuo, il quale cerca di ridurla o attraverso una ristrutturazione cognitiva o attraverso una specifica strategia comportamentale. Il limite di tale teoria è quello di aver relegato alla sola retribuzione monetaria il ruolo di parametro dell’equità.

 

 

 

 

 

  1. LA RILEVANZA  DELLE  MOTIVAZIONI  INTRINSECHE

 

Quando le organizzazioni ricercavano la sola accondiscendenza dei loro dipendenti, erano in grado di acquistarla attraverso il denaro ed altri benefici tangibili.

Nel linguaggio adoperato dalle varie teorie sulla motivazione questi sono motivatori estrinseci. Essi non provengono dal lavoro di per se stesso, sono elargiti da un supervisore che si assicura che il lavoro venga svolto bene e che le regole siano osservate. Ricadono in questa categoria, quindi, elementi come il salario, i premi economici, le provvigioni, i bonus, ecc..

I premi estrinseci costituivano una facile soluzione per motivare nell’era dell’accondiscendenza.

Nella situazione lavorativa odierna i fattori motivazionali sono più pregnanti e complessi. I lavoratori hanno bisogno di essere maggiormente autonomi e self – managing. Tutto ciò, naturalmente, richiede maggiore iniziativa ed impegno, cose che derivano da livelli di passione e soddisfazione differenti da quelli che possono derivare da premi esterni.

Oggigiorno, il lavoro è potenzialmente più ricco di motivatori “intrinseci”. Questi derivano direttamente dal lavoro che i dipendenti svolgono: l’orgoglio derivante dall’essere abili in quello che si fa; la percezione di essere stati utili ai propri clienti, di aver fornito un buon servizio.

Il lavoro a ogni livello diviene più simile a quello manageriale. Per meglio comprendere questo cambiamento ideale di impostazione si consideri per un attimo proprio il modo di operare tipico dei veri manager. Innanzitutto essi attingono l’energia dal lavoro stesso e si sentono coinvolti in esso. I manager percepiscono il loro lavoro come qualcosa che effettivamente può fare la differenza e credono in ciò che fanno. Normalmente si vedono come persone che, in qualche modo, sono utili agli altri. Essi traggono soddisfazione dalle situazioni che sono riusciti a gestire per il meglio e sono orgogliosi delle innovazioni creative e delle nuove idee che hanno proposto ed hanno determinato buoni risultati. Sono molto distanti dall’essere annoiati dal proprio lavoro e spesso se lo portano a casa, sia fisicamente che pensando ad esso.

Nei lavori contemporanei, pertanto, anche alla luce delle considerazioni spese nelle pagine che precedono, le motivazioni c.d. “intrinseche” sono cruciali.

Tuttavia, le motivazioni estrinseche sono ben lungi dal perdere ogni tipo di rilevanza. In realtà, pur se debbono ritenersi superate le teorie “esclusiviste” che – in un primo momento – hanno attribuito rilevanza esclusiva ai soli fattori estrinseci, ciò non significa che essi non rivestano una qualche importanza, specie nelle situazioni in cui i lavoratori sono poco pagati o ricevono scarsissimi benefits, ovvero quando vi sono ingiustizie o, infine, quando ricevono altre più appetibili proposte di lavoro.

 

 

  1. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

A partire dall’inizio del XX secolo fino a pochi anni fa era ragionevolmente corretto pensare al ruolo dei lavoratori in termini di accondiscendenza, di obbedienza cieca ed acritica.

Oggi, invece di assecondare regole prestabilite, viene richiesto ai lavoratori di divenire risolutori di problemi. I dipendenti divengono, così, partner strategici del top management, contribuendo alla decisione delle azioni necessarie fin dai più bassi livelli per poter soddisfare gli scopi dell’organizzazione.

Da più parti, quindi, è stato asserito che il corretto utilizzo delle risorse umane diverrà una importante fonte di vantaggio competitivo.

In tale contesto, come abbiamo avuto modo di dimostrare, i dipendenti devono essere trattati in modo differente rispetto agli anni passati: devono guadagnare uno stipendio maggiore, ma le differenze più significative vanno ben al di là del puro piano economico.

Il nuovo ruolo del lavoro presenta maggiori richieste psicologiche, data la complessità e la necessità di capacità di giudizio, e richiede un livello più profondo di impegno.

Mentre gli incentivi economici sono abbastanza adeguati per assicurarsi l’accondiscendenza, l’ottenimento dell’impegno è una questione ben differente!

Ma gli aspetti psicologici riferiti alla persona-lavoratore sono estremamente importanti, come si è avuto modo di anticipare, anche sul piano della prevenzione e della tutela della salute dei dipendenti.

L’attenzione per il tema è alta, anche a livello sovranazionale, come testimonia l’opera condotta dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, tramite lo “European Risk Observatory”, che ha condotto approfonditi studi in materia, pervenendo a conclusioni che individuano una serie di categorie professionali particolarmente esposte allo stress nell’ambiente di lavoro (più nel dettaglio, si tratta dei medici e delle altre figure sanitarie, i poliziotti ed i vigili del fuoco, gli psicologi, insegnanti ed educatori, avvocati e ricercatori)[14].

Segnatamente, con la suggestiva e talvolta abusata locuzione di “stress lavoro-correlato” si è soliti indicare la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le condizioni imposte dall’ambiente lavorativo eccedono le capacità individuali, determinando, in un ragionevole lasso temporale, l’insorgenza di una vasta gamma di sintomi che includono banali mal di testa, disturbi gastrointestinali, nonché importanti patologie del sistema nervoso (disturbi del sonno, nevrastenia, affaticamento cronico) fino a giungere a veri e propri casi di burn-out o al collasso nervoso[15].

Di tanto si è avveduto anche il legislatore domestico, con i più recenti interventi normativi che hanno posto attenzione al tema dello stress lavoro-correlato[16]. In tale ottica, la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro (ricostituita con Decreto Ministeriale del 4 luglio 2014), nella sua riunione di insediamento tenutasi il 5 novembre 2014 ha posto l’accento enfaticamente sul fatto che in “un periodo di profondo cambiamento come quello attuale, dobbiamo considerare anche altri aspetti, come quelli legati allo stress correlato da lavoro, considerare l’invecchiamento della popolazione attiva e l’allungamento della vita lavorativa e dare strumenti alla necessità di rendere più vivibili i luoghi di lavoro”.

A prescindere dalle valide ed efficaci linee guida fornite sul punto e disponibili sui differenti siti istituzionali (ad esempio, si veda quello dell’INAIL, particolarmente completo ed esaustivo[17]), è chiaro che l’importanza della sorveglianza sanitaria si pone come ultimo baluardo per la tutela dei lavoratori, postulando, a monte, la creazione di condizioni che non determinino l’insorgenza significativa del rischio. Di ciò, oltre a beneficiarne in termini di salubrità il personale, potrà trarne effettivi vantaggi anche l’azienda, in un’ottica di miglioramento della performance e della più spiccata esaltazione dei fattori motivazionali.

 

Dr.ssa Silvia Raspa

Specialista in Medicina del Lavoro

 

 

INDICE

 

  1. PREMESSA (pag. 1)

 

 

  1. L’EVOLUZIONE NELLA CONCEZIONE DELLA RISORSA LAVORATIVA: DA  RISORSA  “LAVORO” A  RISORSA  “UMANA”  (pag. 3)

 

 

  1. LO STUDIO  DEI  FATTORI  MOTIVAZIONALI   (pag. 8)

 

 

  1. LA RILEVANZA  DELLE  MOTIVAZIONI  INTRINSECHE     (pag. 19)

 

 

  1. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE         (pag. 22)

 

 

[1] Cfr. CRAVERA A., Empowerment e motivazione delle persone attraverso il superamento della classica job description, in www.executivesurf.com; SABBADIN E., Economia e gestione delle imprese, Bologna, 2002.

[2] L’attenzione verso il fattore umano si concretizza, alla fine degli anni ’50, con la formalizzazione del modello americano dello human resource management, le cui caratteristiche essenziali sono date dai seguenti aspetti:

  1. maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle politiche aziendali;
  2. maggiore autonomia e responsabilizzazione;
  3. rapporti improntati su fiducia per minimizzare la conflittualità;
  4. tensione al miglioramento delle prestazioni.

[3] Cfr. M. C. E. VAN LEEUWEN, New & old economy, in www.planetfunds.com.

[4] Così, testualmente, F. AVALLONE, Psicologia del lavoro, storia, modelli, applicazioni, Roma, 2000. Le idee di Taylor trovarono applicazione, inizialmente, nello stabilimento Ford di Detroit, poi l’approccio si diffuse. Di Taylor hanno trovato maggior applicazione: la “parcellizazione”; la “predeterminazione”; la “forte specializzazione”.

[5] Tale apatia si manifesta con la classiche frase “non è compito mio”, oppure con la più sottile giustificazione “ho solo fatto ciò che mi è stato detto di fare”.

[6] CRAVERA A., Empowerment e motivazione delle persone attraverso il superamento della classica job description, cit..

[7] Ed infatti, Maslow viene considerato il capostipite delle teorie basate sui bisogni (cfr. F. AVALLONE, Psicologia del lavoro, storia, modelli, applicazioni, cit.).

[8] TAYLOR, The principles of scientific management, New York, Harper, 1911, 100.

[9] B. BONAVENTURA, Il ruolo delle motivazioni nelle attività lavorative, 2002.

[10] MAYO, I problemi umani e sociopolitici della società industriale (traduzione italiana), Torino, UTET, 1969.

[11] Per un richiamo applicativo, cfr. CAVALIERE – ROSINI, I processi decisionali nell’organizzazione d’impresa, autori, strumenti, metodologie utilizzate, casi concreti, 4° Workshop dei docenti e ricercatori di Organizzazione aziendale, Firenze, 13/14 febbraio 2003.

[12] Vgs. F. AVALLONE, Psicologia del lavoro, storia, modelli, applicazioni, cit., il quale rammenta che le teorie delle motivazioni si avvalgono anche dei contributi della teoria di Aderfer (secondo cui esistono solo tre principali categorie di bisogni: di sopravvivenza, di relazione e di crescita), della teoria bifattoriale di Herzberg (che individua due gruppi di fattori: igienici – cioè estrinseci – e motivanti – cioè intrinseci –) e della teoria di McClelland, che parte da una analisi storico-antropologica sui motivi di decadenza delle civiltà e individua prima due e poi tre grandi gruppi di bisogni: bisogno di successo, bisogno di affiliazione e bisogno di potere. Egli poi trasferisce le proprie tesi nel campo della psicologia del lavoro.

[13] Tale orientamento ha i suoi rappresentanti in Adams, Heider e Festinger.

[14] GANNON F, Burnout., in EMBO Rep., vol. 9, nº 12, dicembre 2008, p. 1157.

[15] L’Accordo Europeo sullo stress lavoro-correlato (firmato a Bruxelles, 8 ottobre 2004) definisce lo stress come “una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro”.  Lo stress lavoro-correlato, in altri termini, può rinvenire una origine in differenti aspetti, che siano comunque intimamente connessi con l’organizzazione e l’ambiente di lavoro.

[16] Il d.lgs. 81/2008 e s.m.i. obbliga infatti i datori di lavoro a valutare e gestire il rischio stress lavoro-correlato al pari di tutti gli altri rischi, in attuazione del citato Accordo europeo.

[17] https://www.inail.it/cs/internet/attivita/ricerca-e-tecnologia/area-salute-sul-lavoro/rischi-psicosociali-e-tutela-dei-lavoratori-vulnerabili/rischio-stress-lavoro-correlato.html.

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