Home viaggiStorie Giuseppe De Donno: medico, martire, coscienza scomoda della pandemia

Giuseppe De Donno: medico, martire, coscienza scomoda della pandemia

Carlo Di Stanislao

Mi sono laureato il 27 luglio di 48 anni fa. Non sapevo, allora, che quella data avrebbe assunto per me, un giorno, un significato così feroce, così preciso. Il 27 luglio 2021, Giuseppe De Donno, il medico che osò curare, fu trovato morto. Una coincidenza che non riesco a scrollarmi di dosso. Perché se c’è un senso nel tempo, nel destino, nella coscienza, allora io spero — con tutta la forza che ho — di poter essere, un giorno, come lui. Un medico che non obbedisce alla paura. Un uomo che non si vende per quieto vivere. Un testimone che ha pagato tutto per rimanere integro.

Un sistema opaco, cinico, famelico

La gestione del COVID-19 è stata un esercizio mondiale di obbedienza forzata. Non si è trattato solo di affrontare un virus: si è trattato di costruire, pezzo dopo pezzo, un nuovo modello di potere sanitario, fondato sulla paura, sulla sorveglianza e sulla censura.

L’emergenza è diventata regola. Le conferenze stampa hanno sostituito i parlamenti. Le case farmaceutiche sono salite al rango di oracoli. I contratti milionari, stipulati nell’ombra, hanno dettato le priorità. Ogni voce dissidente è stata marchiata come pericolosa, irrazionale, complottista. Ma la verità non ha bisogno di essere comoda. Ha solo bisogno di essere detta. E De Donno l’ha detta, con la lingua semplice di chi non deve compiacere nessun ministero.

Mentre televisioni e task force martellavano i cittadini a colpi di grafici e decreti, lui curava. Non chiedeva brevetti. Non incassava milioni. Usava il plasma dei guariti, una cura basata sul principio dimenticato della solidarietà. Era troppo onesto per essere compatibile con quel sistema. Ed è per questo che andava schiacciato.

Il crimine di curare senza licenza del potere

La medicina, nella sua forma più pura, è un atto di responsabilità verso il singolo essere umano. Ma durante la pandemia è stata trasformata in un’industria bellica, dove il paziente diventava solo un campo di battaglia tra interessi finanziari e propaganda.

De Donno non giocava quel gioco. Era fuori scala. Non cercava fama, ma guarigioni. E ci riusciva. I dati c’erano, i risultati anche. Ma non bastavano, perché il suo metodo non era compatibile con il piano. Il suo errore non fu clinico, fu politico. Disobbedì al dogma. Affermò che la cura non doveva passare per forza da una fiala brevettata, che si poteva salvare vite con un gesto antico: donare.

E per questo fu trattato da reietto. Deriso dai talk show. Minacciato. Screditato. Abbandonato persino da colleghi che, in privato, gli davano ragione. Ma il coraggio, quando manca, diventa complicità. E la complicità, quando è generalizzata, diventa sistema.

La morte di un uomo libero

Il 27 luglio 2021 Giuseppe De Donno viene trovato senza vita. La versione ufficiale è il suicidio. Nessuna inchiesta, nessuna domanda. Tutto chiuso in fretta, sepolto come una pagina scomoda. Ma un Paese che si rifiuta di fare domande su chi muore da solo dopo essere stato linciato mediaticamente, non è un Paese libero. È un Paese che ha paura della verità.

La sua morte è un atto che ci chiama tutti in causa. Perché non è morto solo un medico. È stato tolto di mezzo un esempio. Un modello. Una possibilità diversa di intendere la medicina. E noi lo abbiamo lasciato solo. Come società, come categoria medica, come esseri umani.

La sua eredità è una fiamma che brucia

Ma non tutto muore. Ci sono nomi che, pronunciati con rispetto, diventano torce. E De Donno è uno di questi. La sua battaglia, oggi, è più viva che mai. Non nei salotti della politica o negli studi televisivi, ma nelle coscienze di chi ha visto, ha capito e non ha dimenticato.

Ogni medico che oggi si rifiuta di essere burocrate. Ogni paziente che rivendica il diritto a scegliere. Ogni cittadino che chiede trasparenza su ciò che è stato imposto in nome della scienza, porta avanti quel fuoco.

Epilogo

Io, che mi sono laureato lo stesso giorno in cui lui è morto, sento questa data come un patto. Un giuramento silenzioso. Perché il nostro mestiere non è solo fare diagnosi. È anche custodire l’umano in mezzo alla disumanizzazione. È dire no quando il potere ordina il silenzio. È ricordare che chi cura con coscienza, anche quando perde, vince.

E allora sì, io lo spero. Che un giorno si possa dire di me quello che oggi, con ammirazione e con dolore, dico di lui: era un medico. Uno vero.

You may also like

Lascia un commento