Aveva smesso di amarlo. Aveva solo 14 anni. Lui, 19, l’ha massacrata per punirla. Perché nella sua testa malata l’amore era possesso. Questa è l’Italia che piange dopo. Sempre dopo.
Aveva 14 anni. Non era una donna, non era una preda, non era una proprietà.Non aveva ancora l’età per firmare un permesso da sola. Eppure è stata trattata come un oggetto, come una cosa da usare, controllare e, alla fine, distruggere. A 14 anni dovrebbe essere il tempo dei sogni, dei diari pieni di cuori, delle canzoni ascoltate a tutto volume, delle risate con le amiche. E invece, per lei, è diventato il tempo del sangue, dell’odio, della pietra che colpisce la carne. Il tempo della morte.
Il ragazzo che l’ha uccisa aveva 19 anni. suo ex. O almeno così lo chiamavano. Ma in quella relazione non c’era amore. Perché l’amore non aggredisce. Non minaccia. Non uccide. L’amore non ossessiona, non controlla, non schiaccia. L’amore vero sa lasciar andare. L’amore autentico è libertà, non possesso. Ma lui non ha accettato il rifiuto. Lei gli aveva detto no. Un no limpido, giovane, pieno di vita e di coraggio. E quel no lo ha fatto esplodere. La frustrazione si è trasformata in violenza. Il dolore, in vendetta. La perdita di potere, in omicidio.L’ha colpita con una pietra. Più volte. Fino a cancellarla. Non come si colpisce un essere umano, ma come si distrugge un oggetto. Come si schiaccia qualcosa che non ci serve più. La sua rabbia era quella di chi pensa che dire “sei mia” sia una forma d’amore. Ma non è così. È dominio. È patriarcato. È la stessa logica malata che trasforma il rifiuto femminile in condanna. Che insegna ai maschi a confondere l’identità con il controllo. Che li cresce con l’idea che la donna sia una cosa da possedere, non una persona da rispettare.
Ecco il vero virus. Non il raptus. Non la gelosia. Non la malattia mentale. Ma la cultura patriarcale. Quella che penetra nei gesti quotidiani, nei linguaggi, nei silenzi. La cultura del possesso che si nasconde dietro battute, proverbi, canzoni. Quella che insegna a tollerare il controllo, a giustificare la violenza, a minimizzare la paura. A fare finta di nulla.Il ragazzo che l’ha uccisa non è un mostro. Non è nato violento. È stato educato così. Cresciuto tra frasi come “se ti tratta male è perché ti ama”, “sono solo ragazzi”, “ma anche lei però…”. E lei? Lei era una ragazza che forse aveva capito troppo tardi che quell’amore faceva male. Una ragazza che ha provato a liberarsi. Una ragazza che ha detto basta. E per questo è stata uccisa.
Adesso tutti piangono. I genitori. Gli amici. La scuola. Le istituzioni. Ma poi tutto torna come prima. Le candele si spengono, i post si dimenticano. E intanto, altri ragazzi crescono con lo stesso veleno nel sangue. Con la stessa idea malata che amare significhi possedere. Con la convinzione che un no sia un’offesa personale. Che perdere una ragazza sia una sconfitta da lavare col sangue.Questo non è solo un fatto di cronaca. Questo è un femminicidio. È una questione politica. Sociale. Culturale. È la prova che l’Italia è ancora un Paese in guerra contro le donne. E che le armi di questa guerra sono invisibili, silenziose, tollerate. Educazione sbagliata. Modelli tossici. Silenzi complici. E assenza di prevenzione.Le vittime si moltiplicano. Ma i carnefici sono sempre uguali. Ragazzi normali, cresciuti accanto a noi. Che nessuno ha mai educato alla fragilità. All’empatia. All’ascolto. E allora la responsabilità è nostra. Di chi insegna. Di chi comunica. Di chi scrive. Di chi resta in silenzio quando sente una frase sessista. Di chi ride per mascherare il disagio. Di chi guarda e non interviene.Non bastano più i minuti di silenzio. Non bastano più i mazzi di fiori. Non bastano più i comunicati stampa. Serve agire. Serve educare. Serve rivoluzionare il modo in cui cresciamo i nostri figli. Serve una nuova idea di mascolinità. Serve un nuovo linguaggio, un nuovo modello. Serve coraggio.
Quella ragazza aveva 14 anni. Non farà il primo esame. Non andrà al mare con le amiche. Non conoscerà l’amore vero. Non saprà mai che il dolore si può trasformare in forza. Perché qualcuno ha deciso che non poteva dire no. Che la libertà le costava la vita.
Questo è un fallimento collettivo. Un atto d’accusa contro di noi. E se oggi piangiamo, domani dobbiamo cambiare qualcosa. Subito. Concretamente. Con scelte vere.Perché finché non cambiamo la cultura del possesso, continueremo a leggere nomi di ragazze uccise. Finché non cambiamo i modelli educativi, continueremo a piangere troppo tardi.
E come diceva De André,“Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.”