“La libertà consiste nel potere di fare ciò che è giusto, non nel diritto di fare ciò che piace.”
— Lord Acton
In un tempo in cui la complessità dei conflitti internazionali si riflette ogni giorno nelle nostre piazze e nei nostri dibattiti pubblici, occorre ribadire una verità fondamentale e spesso dimenticata: una marcia è davvero utile solo se serve a costruire, non a distruggere; a includere, non a isolare; a pacificare, non a infiammare.
Manifestare è un diritto sacrosanto, espressione viva della democrazia e della libertà di parola. Ma non tutte le marce sono uguali. Quelle che nascono per affermare diritti universali, per invocare la pace, per dare voce ai senza voce, sono momenti di crescita collettiva. Quelle che si trasformano invece in cortei ideologici, strumentalizzati per attaccare selettivamente un popolo, una comunità o una storia, finiscono per tradire la loro stessa vocazione.
È quanto accaduto a Marzabotto, luogo simbolo della Resistenza e del martirio antifascista, dove si è svolta una marcia “pro Gaza” che, nei fatti, ha assunto i tratti di una manifestazione contro Israele e, indirettamente, contro gli ebrei. Le parole pronunciate da molti protagonisti – tra cui amministratori pubblici, rappresentanti sindacali e associativi – hanno evocato accuse gravissime come “genocidio” e “crimini contro l’umanità”. Parole pesanti, che usate con leggerezza rischiano di svuotare di significato proprio quelle categorie giuridiche e morali nate per descrivere l’indicibile: Auschwitz, Srebrenica, il Ruanda.
Paragonare Israele al nazifascismo, evocare Marzabotto per parlare di Gaza, non solo è storicamente infondato: è anche profondamente offensivo verso la memoria delle vittime italiane della Seconda guerra mondiale. Chi combatteva i nazisti non lo faceva per sostituire un nemico con un altro, ma per affermare il valore della libertà, della giustizia e della dignità umana, universali e indivisibili.
Ancora più grave, però, è stato il coinvolgimento implicito – o esplicito – della comunità ebraica italiana. Si è chiesto agli ebrei del nostro Paese di prendere posizione “contro Israele”, in quanto ebrei. È un salto logico e morale che riporta a meccanismi antichi e pericolosi: la colpa collettiva, l’identificazione religiosa come marchio politico, la negazione della complessità individuale. È inaccettabile. Nessuno chiede ai cattolici di condannare il Vaticano per le crociate. Nessuno chiede ai musulmani di scusarsi per l’ISIS. E allora perché un ebreo dovrebbe sentirsi obbligato a prendere le distanze dal governo israeliano, come se l’identità religiosa fosse una forma di responsabilità politica automatica?
Voltaire, che fece della tolleranza una bandiera morale prima ancora che politica, ci ha insegnato che “non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Ma oggi siamo lontani da questo spirito: si pretende conformismo morale e ideologico, si pretende schieramento. Non basta più invocare la pace: bisogna schierarsi con “chi ha ragione”, secondo una narrazione che non ammette sfumature. Eppure proprio Voltaire ci ricordava che l’intolleranza è il più grande veleno delle società civili, e che la libertà si difende anzitutto nel momento in cui si rifiuta di trasformare la critica in odio.
Montesquieu, dal canto suo, ci ha lasciato una lezione altrettanto preziosa: il potere deve essere limitato dalla ragione e dalla giustizia. Quando la politica si trasforma in tribunale morale, e la piazza in luogo di condanna sommaria, si abbandona proprio quello spirito di equilibrio e di separazione tra emozione e diritto che rende possibile la convivenza. “Una cosa non è giusta perché è legge – scriveva Montesquieu – ma deve essere legge perché è giusta”. Allo stesso modo, una marcia non è legittima perché è numerosa o rumorosa: lo è solo se poggia sui valori della verità, della giustizia, dell’universalità dei diritti.
A Marzabotto, invece, è andato in scena un copione che abbiamo già visto: slogan gridati, bandiere sventolate a senso unico, e un messaggio in fin dei conti semplificato fino alla caricatura. Sul palco, anche il segretario della CGIL Maurizio Landini, il quale, fedele alla sua abitudine di presenziare ovunque ci sia una telecamera e un microfono, ha detto la sua sul “massacro in corso” a Gaza. E poi, come ormai consuetudine, ha lasciato il corteo dopo pochi metri, lasciando dietro di sé l’eco delle sue parole e, anche questa volta, una sconfitta morale. Perché il pacifismo a corrente alternata – sempre pronto a indignarsi solo da una parte – non convince più nessuno. Tranne forse sé stesso.
Una marcia utile, oggi, dovrebbe parlare la lingua della pace. Non quella dei manifesti ideologici o degli slogan divisivi. Dovrebbe dire “basta guerra”, senza scegliere il colore delle bandiere da sventolare. Dovrebbe difendere i bambini di Gaza senza dimenticare quelli di Sderot, quelli rapiti da Hamas, quelli traumatizzati dai razzi e dal terrore. Dovrebbe essere uno spazio in cui ebrei, cristiani, musulmani e laici possano camminare insieme, fianco a fianco, per dire che la vita viene prima di ogni bandiera.
Le guerre, tutte, nascono da una semplificazione brutale: buoni contro cattivi, giusti contro mostri. Le marce che funzionano davvero sono quelle che invece riconoscono l’ambiguità, la sofferenza, la complessità. Sono quelle che non chiedono “contro chi sei?”, ma “per chi cammini?”. Perché la pace non si ottiene urlando più forte dell’altro, ma camminandogli accanto, anche quando ci divide quasi tutto.
In questo senso, Marzabotto meritava qualcosa di diverso. Un momento di riflessione condivisa, non una passerella ideologica. Un’occasione per ricordare che la memoria è un ponte, non un’arma. Che le tragedie del passato devono aiutarci a evitare l’odio, non a rinnovarlo.
Se davvero vogliamo costruire un mondo migliore, iniziamo a scegliere le parole con cura. E le marce, con ancora più attenzione.
Perché non tutte le piazze sono uguali. E non tutte portano nella direzione della pace.