Home Esteri Chi parla forte, comanda: il cerchio magico di Trump tra falchi, colombe e fluttuazioni di potere

Chi parla forte, comanda: il cerchio magico di Trump tra falchi, colombe e fluttuazioni di potere

Carlo Di Stanislao

Il potere non è un mezzo, è un fine. Uno non stabilisce una dittatura per salvaguardare una rivoluzione; uno fa una rivoluzione per stabilire una dittatura.”
George Orwell

“Il presidente parla con molte persone e sceglie chi gli dice le parole magiche… e questa convinzione dura fino alla conversazione successiva.”
John Bolton

A poco più di sei mesi dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, il suo cerchio magico si conferma mutevole, frammentato e dominato da una logica di lealtà personale più che da coerenza ideologica. Il presidente ascolta molti, ma raramente per lungo tempo. Decide spesso in base a chi riesce a incorniciare la realtà nella narrativa più seducente del momento.

Nel 2025, il cuore del potere trumpiano è occupato da due fazioni opposte che competono per influenzare le scelte strategiche, in particolare sulla crisi in Medio Oriente e sul confronto con Cina e Russia. Da una parte ci sono i falchi, favorevoli a un approccio muscolare; dall’altra le colombe, sostenitrici di una politica estera di contenimento e priorità nazionale.

I falchi: la linea dura

Al centro dell’ala più aggressiva si trova Marco Rubio, attuale segretario di Stato ad interim. Rubio ha promosso un discorso di forza sia verso Teheran che nei confronti di Pechino, insistendo sulla necessità di mostrare superiorità militare e volontà d’azione. Accanto a lui c’è Michael “Erik” Kurilla, comandante del Centcom, che ha presentato opzioni per un attacco mirato ai siti nucleari iraniani. Anche se prudente nei toni pubblici, i suoi report hanno alimentato la pressione su Trump affinché agisca.

Un altro protagonista è John Ratcliffe, direttore della CIA, che ha recentemente sottoposto al presidente valutazioni allarmanti sul possibile imminente attacco israeliano all’Iran e sulle ripercussioni che potrebbe avere se Washington restasse inattiva. Il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, insieme ai senatori Tom Cotton e Mitch McConnell, rafforza la posizione falchista promuovendo una visione dell’America come garante della deterrenza globale, anche a costo di interventi limitati.

Dopo giorni di dibattiti e pressioni contrapposte, il bombardamento del 21 giugno contro infrastrutture militari iraniane ha segnato un punto di svolta: i falchi sembrano aver avuto la meglio. L’attacco, definito “chirurgico” ma simbolicamente potente, è stato descritto come una risposta alla crescente aggressività iraniana e una riaffermazione della leadership americana nella regione. È il primo vero segnale che Trump, pur tra esitazioni e retromarce verbali, abbia deciso di seguire la linea dura, almeno per ora.

Le colombe: l’America First più prudente

Sull’altro versante troviamo figure che predicano contenimento, attenzione alle priorità interne e diffidenza verso le avventure militari all’estero. In prima linea c’è J.D. Vance, vicepresidente, ex militare con una visione realista dei limiti del potere americano. Vance è contrario a un conflitto aperto con l’Iran, pur senza escludere misure difensive se necessarie.

Accanto a lui vi sono influenti figure mediatiche e strategiche come Steve Bannon e Tucker Carlson, storici interpreti della dottrina “America First” in versione isolazionista. Entrambi si oppongono a un altro conflitto in Medio Oriente, ritenendo che una guerra danneggerebbe la classe media americana, economicamente ed emotivamente stremata da anni di impegno militare. Un ruolo controverso lo ha giocato Tulsi Gabbard, ex direttrice dell’intelligence nazionale, inizialmente sottovalutata per aver minimizzato le capacità iraniane ma recentemente rientrata nel dibattito.

Jared Kushner: il consigliere ombra

Nel mosaico delle influenze presidenziali non può mancare Jared Kushner, genero di Trump e figura centrale dietro le quinte. Dopo un periodo di relativa invisibilità mediatica, Kushner è tornato ad avere un ruolo nelle decisioni chiave, soprattutto nei dossier mediorientali, in cui vanta relazioni personali con molti leader della regione.

Sebbene non ricopra formalmente un incarico, il suo peso è tangibile nelle linee di contatto con Israele, Arabia Saudita e Qatar. Kushner è considerato un moderato pragmatico, più attento agli equilibri economici e agli scenari post-bellici che agli impatti propagandistici di un attacco. La sua influenza è particolarmente visibile ogni volta che Trump frena all’ultimo momento una decisione muscolare già quasi annunciata. Se da un lato non gode della visibilità dei falchi, dall’altro è tra i pochissimi ad avere accesso costante e familiare al presidente.

Trump, il presidente che ascolta tutti (ma poco)

Chi ascolta davvero Trump? La risposta è sfuggente. È noto che Trump non adotta un processo decisionale lineare. Piuttosto, si circonda di voci discordanti, poi decide sulla base dell’intuito, della reazione mediatica e del vantaggio immediato. Ha spesso privilegiato consiglieri che lo adulano o che sanno usare il linguaggio che preferisce. Questa inclinazione ha portato, in passato, a scelte improvvise come la destituzione di funzionari critici o l’abbandono di decisioni annunciate appena giorni prima.

Oggi, dopo il bombardamento del 21 giugno, sembra che Trump abbia deciso – almeno temporaneamente – di affidarsi alla narrativa dei falchi. Ma nel suo stile politico nulla è mai definitivo, e un nuovo cambio di direzione può sempre arrivare, magari ispirato da un’altra voce, da un sondaggio favorevole o da un’intervista televisiva ben confezionata.

Una presidenza in bilico tra istinto e pressione

Il cerchio magico attorno a Trump non è una struttura ordinata. È un campo di battaglia permanente tra personalità ambiziose, retoriche opposte e interessi divergenti. Quello che accomuna i membri è la consapevolezza che, per influenzare il presidente, non basta essere competenti o strategici: bisogna parlargli nel linguaggio che vuole sentire, nel momento in cui è disposto ad ascoltare.

In questo schema, Trump non governa con coerenza ma con opportunismo. E se c’è una costante in questo caos apparente, è che nessuna voce rimane dominante troppo a lungo. Chi oggi consiglia, domani può essere ignorato. E chi oggi è allontanato, può tornare alla ribalta con un colpo di teatro.

In fin dei conti, come disse George Orwell, chi controlla la narrazione controlla il potere. Nel mondo di Trump, quel potere cambia mano ogni volta che cambia la storia che il presidente vuole sentirsi raccontare.

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