Home Attualità Gaza alla vigilia dell’occupazione: il piano di Netanyahu e l’ombra di un conflitto senza fine

Gaza alla vigilia dell’occupazione: il piano di Netanyahu e l’ombra di un conflitto senza fine

Carlo Di Stanislao

Il vento che arriva da Gaza non porta frescura, ma polvere, odore di bruciato e un silenzio inquieto, interrotto solo dalle esplosioni lontane. Nei corridoi del potere israeliano, le ultime ore sono state scandite da discussioni febbrili: il gabinetto di guerra ha analizzato quello che sembra ormai un passaggio inevitabile – l’occupazione totale della Striscia.

Secondo il primo ministro Benjamin Netanyahu, l’obiettivo è chiaro: “Sradicare definitivamente Hamas” e riportare a casa gli ostaggi ancora nelle mani del gruppo armato. Ma a differenza delle prime fasi del conflitto, Netanyahu ha voluto precisare che non si tratta di un’annessione. “Non vogliamo tenerla, non vogliamo governarla. Vogliamo consegnarla a forze arabe che possano garantire sicurezza e dignità alla popolazione”, ha dichiarato in un’intervista a Fox News.

Queste parole, calibrate anche per rassicurare Washington e gli alleati occidentali, nascondono però un nodo difficile da sciogliere: quali forze arabe saranno disposte a prendersi in carico Gaza dopo un’operazione militare così invasiva? La memoria recente è piena di tentativi falliti di passaggio di potere in territori martoriati: dall’Iraq post-Saddam, dove il vuoto istituzionale alimentò una nuova ondata di estremismo, al Libano del Sud, dove l’uscita di Israele aprì la strada all’ascesa di Hezbollah.

La vita sotto assedio
Nonostante oltre l’80% della Strisciasia già sotto controllo militare israeliano, Gaza resta un labirinto di dolore. Le immagini satellitari mostrano quartieri trasformati in deserti di macerie, intere vie scomparse, infrastrutture distrutte fino alle fondamenta. Negli ospedali, medici esausti lavorano in condizioni estreme: manca tutto, dagli antibiotici ai guanti sterili. L’acqua potabile è un lusso per pochi, mentre l’elettricità è razionata al punto che intere famiglie vivono al buio per giorni. Le scuole funzionano come rifugi di emergenza, ma spesso diventano bersagli involontari.

La vita quotidiana si è adattata al ritmo dell’assedio: il rumore dei droni è diventato parte del paesaggio sonoro, le madri cucinano pasti minimi con fornelli improvvisati, e i bambini giocano tra i detriti come se fosse normale. Ma niente è normale: ogni notte, un’evacuazione, un’esplosione, un nuovo elenco di nomi da piangere.

L’offensiva imminente
Secondo fonti militari, la fase finale dell’operazione richiederà ancora due settimane di preparativi. L’esercito parla di “neutralizzazione completa delle infrastrutture militari di Hamas” e di “creazione di un corridoio di sicurezza permanente” lungo il confine. Molti analisti avvertono però che un’occupazione totale, anche temporanea, potrebbe innescare una guerriglia urbana difficile da controllare, con costi umani altissimi. L’aspetto psicologico è già evidente: Gaza vive in una calma sospesa, un silenzio carico di attesa, come se tutti sapessero che il momento peggiore deve ancora arrivare. Nei mercati, la gente compra quello che può non per la settimana, ma per le prossime ore; nessuno sa se domani sarà ancora possibile uscire di casa.

La questione politica
La proposta di Netanyahu di consegnare Gaza a “forze arabe” è un segnale politico, ma anche un’incognita. Alcuni ipotizzano un ruolo per Egitto, Giordania o Emirati Arabi Uniti, ma le condizioni sarebbero complesse: servirebbero garanzie di sicurezza, un piano di ricostruzione colossale e soprattutto un impegno internazionale credibile per evitare il ritorno di milizie armate. Gli storici ricordano che Gaza è stata contesa e amministrata da diversi attori negli ultimi decenni: dal 1948 al 1967 sotto amministrazione egiziana, poi sotto occupazione israeliana fino al 2005, e infine, dal 2007, sotto il controllo di Hamas. Questa sequenza dimostra che ogni cambiamento di controllo senza una soluzione politica solida è destinato a creare nuove fratture.

Il prezzo umano
Le statistiche ufficiali parlano di migliaia di morti e decine di migliaia di feriti. Ma dietro i numeri ci sono storie concrete: la maestra che ha perso la scuola e ora insegna sotto un telo di plastica; il pescatore che non può più avvicinarsi al mare; il bambino che disegna carri armati invece di alberi. Il conflitto ha cambiato il vocabolario emotivo della popolazione: sicurezza significa sopravvivere un altro giorno, speranza significa ricevere un messaggio da un parente vivo.

Possibili scenari futuri
Lo scenario ottimistico prevede un accordo mediato da USA, Egitto e monarchie del Golfo che permetta a un’amministrazione araba di prendere il controllo di Gaza, con un programma immediato di ricostruzione finanziato dalla comunità internazionale. Israele manterrebbe un cordone di sicurezza ma ritirerebbe le truppe entro pochi mesi. La smilitarizzazione di Hamas e la riapertura controllata dei valichi porterebbero a una lenta normalizzazione.
Lo scenario intermedio vedrebbe Israele occupare Gaza per diversi mesi, cercando di stabilire le condizioni per il passaggio di potere. Le forze arabe accetterebbero di entrare solo parzialmente, in zone limitate, mentre sacche di resistenza continuerebbero a operare. La ricostruzione sarebbe lenta e il clima di sfiducia resterebbe alto, con periodiche esplosioni di violenza.
Lo scenario pessimistico, il più temuto, comporterebbe un’occupazione prolungata, guerriglia urbana costante, nessuna forza araba disposta a subentrare e una crisi umanitaria aggravata, con il rischio di un nuovo conflitto regionale e di una radicalizzazione diffusa tra le nuove generazioni.

Come ammonì Lev Tolstoj:
«Non c’è grandezza là dove non vi sono semplicità, bontà e verità.»

Quello che accade oggi a Gaza non è un semplice episodio della storia mediorientale: è il punto in cui la sicurezza dichiarata incontra la disperazione reale. L’idea di occupare senza governare è un’illusione pericolosa: la presenza militare, anche se temporanea, cambia l’equilibrio politico, alimenta rancore e crea le condizioni per nuovi conflitti. Se Israele vuole davvero restituire Gaza a un’amministrazione araba stabile, il momento per un’azione diplomatica concreta è adesso, non dopo che il tessuto urbano e sociale sarà ridotto in polvere. Ogni giorno che passa aumenta il rischio che la prossima generazione cresca conoscendo solo la lingua della violenza. E quando la guerra diventa la lingua madre, la pace non è più un progetto: è un ricordo lontano.

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