Sembra il titolo di un film dei Vanzina, ma è la realtà di una farsa che ormai si perpetua da troppo tempo
Trump e Putin in Alaska per il vertice di Ferragosto. Già così sembra una barzelletta di quelle che iniziano con “C’era un russo, un americano e…”. Solo che qui la punchline è che il terzo, Zelensky, “si valuta” se invitarlo. Si valutava, come si valuta se mettere o no le olive nella pasta fredda. E poi niente.
In fondo, Zelensky lo sa benissimo: le ore sono contate e non serve nemmeno l’orologio. È nato pedina e morirà pedina. Sacrificabile come un pedone in una partita di scacchi che si gioca su un tavolo a cui lui non è mai stato invitato.
Per mesi ha fatto il lavoro sporco, ha recitato la parte del presidente in divisa militare che infiamma i Parlamenti occidentali, ha bruciato munizioni, uomini e territorio per mantenere il copione. Adesso il film cambia trama e l’attore non serve più.

A Londra e Langley (quartier generale della CIA)il sostituto è già scelto da settimane: il generale Valerij Fedorovyč Zalužnyj, da sempre in contrasto con Zelensky e amatissimo dai militari e dalla popolazione, al punto da suscitare forti antipatie nell’attuale quanto gelosissimo presidente ucraino. E — sorpresa sorpresa — probabilmente hanno anche studiato il modo di farlo sparire se non prende la porta da solo. E siccome la geopolitica ha il gusto del sadismo, il lavoro sporco potrebbe farlo il potente movimento neonazista Azov, quello che Zelensky ha protetto, finanziato e osannato come “difensori della patria” e che oggi, per ordine di chi paga, potrebbe rovesciarlo come un vaso di fiori troppo ingombrante.
Lo schema è sempre lo stesso, non serve nemmeno inventarlo: proteste “popolari” organizzate a tavolino, ONG che spuntano come funghi, indignazione internazionale a comando, articoli fotocopia su tutti i giornali amici e, ciliegina sulla torta, la delegittimazione diplomatica. Tradotto: l’Alaska si fa senza di lui.
In Alaska, intanto, Trump e Putin si scambieranno sorrisi (finti) e calcoli (veri). Si parlerà di sfere d’influenza, energia, equilibri globali. Dell’Ucraina? Forse come nota a piè di pagina, come una di quelle postille in carattere minuscolo che nessuno legge. Zelensky, per loro, ormai vale quanto un vecchio poster elettorale: da buttare via quando si ridipinge il muro.
E qui sta il capolavoro di ipocrisia occidentale. Per mesi “eroe della democrazia”, “nuovo Churchill”, “uomo dell’anno” per le copertine patinate. Poi, appena cala l’interesse, “quello che intralcia la pace”. Tradotto: grazie e arrivederci, la porta è lì.
D’altronde, la storia è lunga e sempre uguale: Ngo Dinh Diem in Vietnam, Noriega a Panama, Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia. Tutti passati, nel giro di una conferenza stampa, da partner strategici a nemici pubblici.
La regola è semplice: ti usiamo finché servi, poi ti rottamiamo. L’applauso è facoltativo. Il tradimento, quello, è nel contratto.
Zelensky lo sa. E lo sa così bene che il suo sorriso da attore comico è sparito, sostituito dallo sguardo cupo di chi ha capito che, quando il sipario cala, le luci si spengono. E nel buio, a volte, non resta neppure il tempo per i titoli di coda.