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Dalla Chiesa, Generale condannato prima di morire

Massimo Reina

Il 3 settembre Palermo vide l’ennesima strage annunciata. Il generale mandato a combattere la mafia “senza uomini, senza leggi e senza strumenti” fu crivellato in via Carini insieme alla moglie e a un agente di scorta.

Il 3 settembre 1982 Palermo vide l’ennesimo miracolo all’italiana: lo Stato che piange le proprie vittime dopo averle consegnate, vive, alla mafia. In via Carini cadde Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto da appena cento giorni, crivellato insieme alla giovane moglie e a un agente di scorta. Una carneficina da manuale. Ma, come sempre, la mafia fece solo il lavoro sporco: il grosso l’avevano già fatto i politici romani.

Dalla Chiesa non era l’ennesimo burocrate con stellette lucide e scrivania in ordine. Era l’uomo che aveva messo in ginocchio le Brigate Rosse, portato in carcere i capi e rotto il giocattolo del terrorismo, quando molti a sinistra ancora definivano “compagni che sbagliano” quelli che sparavano in testa agli altri. Uno che sapeva cos’era un nemico e come si combatte. E infatti, quando lo nominarono prefetto di Palermo, non fece giri di parole: “Mi hanno mandato senza uomini, senza leggi, senza strumenti”. Tradotto: “Mi hanno già condannato”.

E mentre lui denunciava, Roma fingeva di non sentire. Spadolini, Rognoni, Cossiga: tutti a proclamare la guerra santa a Cosa Nostra, e intanto zero leggi speciali, zero poteri d’indagine, zero coordinamento. Alla mafia, più che un generale, era stato consegnato un bersaglio. Il resto lo conosciamo: il 3 settembre, kalashnikov in pieno centro città. Le auto crivellate, i corpi sull’asfalto, il sangue che scorre. Palermo attonita, l’Italia “sorpresa”.

E poi il funerale, con tutto il solito caravanserraglio in prima fila. Andreotti, Craxi, i notabili della DC e del PSI, gli stessi che pochi mesi prima non avevano mosso un dito per dargli poteri veri. Tutti col fazzoletto in mano, facce contrite, frasi scolpite dai ghost writer: Lo Stato non arretra, “La mafia non vincerà”. Peccato che lo Stato fosse già arretrato, e parecchio, e che la mafia avesse già vinto: perché aveva dimostrato che un generale dello Stato, senza protezioni e senza strumenti, era carne da macello.

E infatti le stesse scene si ripeteranno dieci anni dopo con Falcone e Borsellino: vivi erano “giudici protagonisti”, “giudici che parlano troppo”, “giudici che cercano visibilità”. Morti diventano statue, vie, aeroporti. Così funziona in Italia: prima ti isolano, poi ti beatificano.

Carlo Alberto dalla Chiesa venne ucciso due volte. La prima, a Roma, quando decisero di mandarlo in Sicilia come foglia di fico, senza uomini e senza leggi. La seconda, a Palermo, con i colpi di kalashnikov. E, come al solito, i mandanti morali non finirono mai in un’aula di tribunale. La verità, amara e semplice, è che la mafia uccide, ma peggio ancora uccide quella parte di politica e società che ti lascia solo, che ti abbandona, che si lascia corrompere da paure, silenzi e illegalità. Perché i proiettili fanno il resto, ma il bersaglio glielo prepara sempre qualcun altro.

 

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