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James Dean, 30 anni dopo: la corsa interrotta

Massimo Reina

James Dean aveva ventiquattro anni, tre film, un ciuffo ribelle e quello sguardo malinconico che da solo diceva più di mille discorsi. Bastarono tre interpretazioni per consegnarlo all’eternità.

Trent’anni fa, su una strada polverosa della California, finì la corsa di un ragazzo che non aveva ancora fatto in tempo a diventare uomo. James Dean aveva ventiquattro anni, tre film, un pugno di foto in bianco e nero che oggi sembrano incisioni su pietra, e uno sguardo che ancora adesso non smette di interrogarci.

Era fragile e arrogante, sfrontato e timido, come tutti i ragazzi che non hanno ancora deciso se diventare adulti o restare bambini. La sua giacca rossa è diventata un’icona, ma dentro c’era un ragazzo che tremava, che non sapeva dove andare, che correva troppo veloce come se avesse fretta di consumare ogni cosa.

Hollywood non fece in tempo a incasellarlo. Tre film: La valle dell’Eden, Gioventù bruciata, Il gigante. Bastarono per costruire una leggenda. Poi l’impatto, il metallo accartocciato, il silenzio. E una generazione che improvvisamente capì che anche gli dei possono morire giovani.

Trent’anni dopo, il volto di James Dean appare ancora sulle pareti delle stanze degli adolescenti. Non per nostalgia, ma perché quello sguardo malinconico e fiero racconta qualcosa che non smette di essere vero: la ribellione, l’inquietudine, il sentirsi fuori posto in un mondo che sembra già scritto.

James Dean non è diventato vecchio, non ha fatto pubblicità, non si è reinventato in mille ruoli. È rimasto sospeso in un eterno presente. Forse è per questo che ci commuove ancora: perché in lui riconosciamo la parte di noi che non vuole crescere, che non vuole arrendersi.

E allora basta guardare una sua foto, il ciuffo ribelle sugli occhi e la sigaretta tra le labbra, per capire che non è un’icona, non è un santino, non è un ricordo ingiallito. È un ragazzo che corre ancora, da qualche parte, verso un orizzonte che nessuno di noi saprà mai vedere.

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