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Fantasmi romeni: il nuovo libro di Carolina Vincenti

Giorgia Piccolella

Ritratti, leggende e memorie di un popolo segnato dall’esilio. In libreria dal 15 novembre per La Lepre Edizioni, dieci biografie straordinarie: una topologia di umanità che si fa racconto dell’anima tra foreste popolate di vento e i labirinti di Bucarest, abitati da danze e segreti.

 

Storie di carne e di gente perduta. Vite e leggende di esuli senza redenzione, di chi non si è arreso portando la patria nel petto. I medaglioni narrativi mettono in scena personaggi che attraversano frontiere, portano al collo i propri morti e non smettono di pensare, traendo forza dalla propria terra e dalle tradizioni di un popolo,

Gente che ha spostato i confini dentro, perché dietro di loro erano cadute le colonne della storia. Una topologia di umanità che si fa racconto dell’anima tra foreste popolate di vento e i labirinti di Bucarest, abitati da danze e segreti.

Carolina Vincenti riporta lì il lettore, tra libri e leggende popolari, alchimie e musica che accompagna la vita. Suoni turchi e balcanici soffiati dal vento delle steppe ed entrati nel sangue delle donne.

Sono aperture di campo tra le ruote del tempo. Genitori e figli rimasti in piedi per il mondo, travolti dalla storia. Hanno imparato a “stipare una vita in una ventina di chili”, quanto poteva portare con sé chi partiva verso un mondo sconosciuto.

Queste pagine sono un fuoco di brace, voci che tornano a bussare tra l’odore dei tigli e le eresie di chi ha cercato di tenere libertà controvento.

Si fanno strada in terre di complotti e carovane di gitani erranti, slargano dolore e speranza tra case saccheggiate e cuori che custodiscono il segreto di bianche camicie di lino. Narrano la Valacchia e i suoi campi di girasoli, le atmosfere della sala da tè Capsa, librerie piene di sapienza e anticariat che tramandano vissuti  alla scoperta dell’anima vera del popolo romeno sopravvissuto alla ciorba e all’inferno del comunismo reale.

Carolina Vincenti riapre le loro storie, li ascolta, ne prende le vene e li indica al lettore in forza di un vissuto che è già testimonianza. Si cammina tra pagine che schiudono castelli di pietra e mostrano occhi. Sono volti di gente con cui la vita ha giocato a dadi. Ecco Dimitrie Cantemir, con il suo sapere speziato che amò sopra ogni cosa i dettagli, e le pagine di Panait Istrati, vagabondo condannato a morire solo, malgrado fosse il cantore dell’amicizia. Figlio di una lavandaia del Danubio, aveva conosciuto vagoni di sale da scaricare insieme alla bellezza di viaggi che sono scoperte senza fine.

E ancora Cioran, genio e flâneur fallito, il filosofo nato in un piccolo borgo annidato tra colline transilvane. A Costantin Noica, portavoce della futura dissidenza, aveva confidato di volere la febbre della vita: “Noi amiamo sempre, malgrado tutto”. Era in esilio anche lui. “Dalla Transilvania aveva portato con sé una sola reliquia, un tappeto tessuto a telaio dalla madre nel borgo natio di Rasinari”.

E’ luce anche anche su Sergio Calibidache, musicista idolatrato ma ostile alle registrazioni, Constantin Brancusi, punta di diamante dell’avanguardia che non amava parlare di sé, Paul Celan, il poeta dell’agonia sublime e Panait Istrati, il “Gor’kij dei Balcani”. Con loro Mircea Eliade, il più illustre storico delle religioni del Novecento che ha insegnato a leggere il mito come evento fondante. O ancora Marta Bibescu, musa proustiana dei salotti della Belle Époque, Dimitri Cantemir, il principe visionario che alla fine del Seicento aveva osservato l’innesco dell’Europa e il declino della mezzaluna del Bosforo ed Elena Ghica, archeologa, botanica, pioniera del pensiero liberale delle élite cosmopolite. Mai attraversato da donne, la porta del Monte Athos si era dischiusa per l’itinerante principessa fanariota. Delle nove lingue parate, l’italiano sarebbe diventato quella del tramonto.

E poi Zalma Roth, la governante dei piccoli comunisti, e Constantin Brancusi. Tutta ancora da scoprire poi la storia di Ioan Petru Culianu in ‘L’assassinio di un iniziato’ che racconta il fascino ei il mistero di questo sapiente gnostico che legava mente e conoscenza.

Come una matrioska, ogni storia ne racchiude un’altra. Scrive Vincenti: “Alla domanda su chi si è, da dove si viene, quale lingua si parla nei sogni, mi è parso più facile rispondere raccontando di altri poiché nessuno più di un esule si interroga sulle proprie identità. Davo così un volto ai molti migranti che di passaggio per Roma erano entrati nel nostro principesco appartamento romano, parlando dopo pochi giorni nei dialetti dei luoghi dove erano diretti. Quasi tutti, come lo scrittore Norman Manea, erano partiti per non tornare”.

Come negli antichi riti pasquali della sua terra, l’autrice passa alle nostre mani una candela accesa. Per far danzare le ombre in esilio e spostare i confini di assenze che non restano prigioni. E forse per dare calore – quanto ne occorre e può durare – a un altro tratto di strada che slarga il futuro di altre generazioni.

Carolina Vincenti, nata a Bucarest e cresciuta a Beirut, si è laureata in Storia dell’arte a Roma, città in cui vive e che racconta da  decenni nelle diverse lingue che conosce. Autrice di numerosi volumi dedicati ai palazzi romani, ha curato mostre per il Musée du Luxembourg in Francia e ha collaborato con il M.I.U.R. occupandosi di ricerca applicata ai beni culturali.

 

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