Corrispondenza di fine anno con Fabrizio Catalano tra visioni ermeneutiche ,inquietudini e contropropositi per il 2026
Ieri, senza preavviso, mi è arrivato un testo travolgente.
Un grido nel deserto, un viaggio negli abissi della città mondiale.
Nel delirio delle parole mi viene incontro Manlio Sgalambro, e quasi senza pensarci, nella risposta a chi me lo aveva affidato, ho scritto:
“Sarà fantasia la nostra…?!
Ma la fantasia è pur sempre una magia…”

Il testo è di Fabrizio Catalano, regista e drammaturgo, nipote di Leonardo Sciascia, suo nonno. Un nome che porta con sé un patrimonio intellettuale importante, ma soprattutto è una voce autonoma, inquieta, capace di attraversare il presente senza indulgenze.
Fabrizio mi ha scritto poche righe, essenziali:
“…Ho pensato che dovevo affidartelo
A fine anno mi pare riassuma orrore per l’attualità, esistenzialismo, visioni e speranze…”
Ed è esattamente per questo che ho deciso di pubblicarlo qui, senza mediazioni, affidandolo ai lettori così come è nato.
“Io credo nella libera circolazione degli individui. Non credo nello stato-nazione di matrice ottocentesca, e non credo che gli Stati, per come li prevede e struttura oggi il cosiddetto diritto internazionale, debbano esistere. Credo che – a livello incosciente o con consapevolezza, epidermicamente o profondamente – molti individui percepiscano un rapporto con la loro madre terra, o che nella loro identità confluisca quella del loro suolo. Credo – in verità, mi pare piuttosto evidente – che questa identità comporti visioni diverse del mondo, e che alcune di queste visioni – quella dei popoli germanici, sulle due sponde dell’Atlantico e su quelle in Europa trascurate del Pacifico – siano dannose per tutta l’umanità. Sospetto che vi sia qualcosa di pericoloso – forse persino d’infame – nell’obbediente soppressione dell’individualità di molte culture dell’Estremo Oriente, ma non ho di quelle regioni una conoscenza che mi permetta di esprimermi con fermezza.

Mi piacerebbe poter dire che credo, un giorno, nell’autoregolamentazione delle persone. Credo gioiosamente e poeticamente nel ritorno della dea, in una società declinata al femminile, nell’abolizione del senso del possesso. Credo in questa dea che è ideale, armonia, equilibrio, fascino, sensualità, intelligenza, saggezza, memoria. Credo che il monoteismo sia veleno. Credo che l’istinto di sopraffazione non sia inalienabile dall’essere umano. E ritengo che chi lo alimenta – in sé o negli altri – debba essere ridicolizzato; che debba provare vergogna chi sente dentro di sé la sopraffazione e il possesso.
Non credo nel denaro; e credo che un’umanità rinnovata dovrebbe, se non provare ad abolirlo, almeno riportarlo negli argini della logica e impedire che sia fonte di sperequazioni, ingiustizie, soprusi.

Sicuramente, in un mondo normale, non andrebbe pagata la casa in cui si abita: un tetto sulla testa è un diritto inalienabile. Non credo nelle classi sociali; credo che ognuno dovrebbe contribuire con le proprie capacità alla vita e al fervore di una società sana.
Credo nella fantasia e nella ragione. Credo che la cultura sia un insieme di sensibilità, consapevolezza, memoria ed etica. Credo che l’arte, la spiritualità e la magia – quelle vere – siano strettamente interconnesse.

Credo che arte, spiritualità e magia oggi agonizzino perché strappate da un patriarcato esacerbato e rapace alla loro natura. Alla natura.
Mi rendo conto che non ho ancora scritto la parola libertà, e non so se per questo dovrei inquietarmi. Ma forse il concetto di libertà è così ampio che, in una stagione di piccole e grandi libertà ipocritamente negate, confonde il mio cervello impaziente. O, più semplicemente, non credo in una libertà che non germogli dalla consapevolezza. E, nonostante l’estremo sviluppo tecnologico, l’umanità di oggi dalla consapevolezza è, nella maggior parte dei casi, esecrabilmente lontana.”
Ho letto queste righe come si ascolta un grido nel deserto.
Siamo forse davvero solo una goccia nel mare, incapace di fermare le onde che tentano di farci annegare.
Penso davvero che siamo alla fine della storia: o riusciamo a salvarci, o scivoliamo più a fondo nel pavesiano “gorgo muto”.
Ma finché possiamo, possiamo parlare. Possiamo esercitare una libertà fragile, non proclamata, fatta di parola, di pensiero, di fantasia.

Forse il ritorno della dea è solo questo: una possibilità che affiora, una misura dimenticata che la fantasia continua a custodire, come fa la magia quando non chiede di essere vista….
Chissà se, con gli echi nel vento del deserto – come insegna Pierfranco Bruni – uno Sciamano, in un’ora non lontana, ascolterà…
Photo cover: Leonardo Sciascia sullo sfondo – Litografia del 1903 di Edward Okuń intitolata Notte.
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