Carolina Stromboli riporta alla luce un ricettario del 1524, preziosa testimonianza della cultura gastronomica napoletana tardo-medievale tra lingua, storia e sapori . Zucchero, spezie e mandorle, ma non solo: i sapori del tempo nella preziosa edizione di Leo Olschki per la collana “Iter Gastronomicum“
Avete mai assaggiato una almogiavola? O una salce dodina con mirastro di piccione e pumata bureglia? Dietro questi nomi antichi e misteriosi si nasconde un mondo di sapori, spezie, aromi e rituali che ci riportano dritti al cuore della cucina: con “Un ricettario meridionale del primo Cinquecento- Edizione e glossario di Apparecchi diversi da mangiare”, Carolina Stromboli ci accompagna in un viaggio affascinante tra le pagine di un manoscritto del 1524, riscoprendo — con sguardo da linguista e passione da esploratrice del gusto — un patrimonio dimenticato di cultura gastronomica e lessico popolare.
Il volume, pubblicato nella collana “Iter Gastronomicum” dell’editore fiorentino Olschki, presenta l’edizione critica di un prezioso ricettario conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Si tratta di 86 ricette, redatte in volgare meridionale, che raccontano una cucina ricca, profumata, stratificata e sorprendentemente raffinata.
Il testo si chiude con una data precisa: “Scripto in Nerula lo anno 1524 a di 3 de agusto”. Per lungo tempo si è pensato che “Nerula” indicasse Lagonegro (Lucania), ma grazie agli studi più recenti — in particolare di Lejla Mancusi Sorrentino e dell’autrice stessa — si è stabilito che il luogo più plausibile è Nerola, nella Sabina romana. Tuttavia, il cuore culturale e linguistico del ricettario batte decisamente a Sud: Napoli e la sua corte aragonese emergono con forza nelle preparazioni, nella terminologia e nella sensibilità culinaria del manoscritto.
Una scoperta affascinante è celata tra le ultime carte: una frase scritta al contrario rivela, forse, l’identità dell’autore. Si tratta di Anton Camuria, nome finora privo di riscontri documentari, ma plausibilmente appartenente a un cuoco professionista o a un copista della cerchia aristocratica partenopea. In ogni caso, l’opera è intrisa della competenza tecnica e dell’esperienza diretta di chi conosceva a fondo l’arte di cucinare per una corte nobile.
Il ricettario è un piccolo capolavoro di tecnica culinaria. Le ricette — spesso introdotte da formule come “Per fare lo mirastro” o “Piglia uno rotulo de insognia” — sono dettagliate e ordinate con metodo, nonostante l’approssimazione di alcune dosi: spesso “quanto pare a vui. Tra gli ingredienti più frequenti troviamo zucchero (presente in 73 ricette su 86), cannella, mandorle, pepe, zenzero, uova e formaggi come caciocavallo e provola.
Non mancano carne (specie di piccione), frutta secca, datteri, acqua di rose e agrumi. Alcuni piatti, come “la turta de russi de ova”, prevedono fino a cento tuorli, a testimonianza della ricchezza di una cucina aristocratica e sontuosa. Il lessico tecnico è minuzioso, e le tecniche di cottura — bollitura, frittura, arrosto — si alternano con accostamenti dolce-salato oggi considerati sorprendenti.
“Apparecchi diversi da mangiare” si inserisce nel fitto intreccio della tradizione gastronomica italiana tardo-medievale e rinascimentale, dialogando con opere fondamentali come:
- il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, capostipite del genere;
- l’Anonimo napoletano (ms. Bühler), affine per contesto e stile;
- il Modo singulare de cucina (ms. Egerton), con cui condivide numerose ricette;
- il ricettario Wellcome, dalla struttura più ampia ma con forti corrispondenze;
- il catalano Libre del coch di Roberto de Nola, cuoco di re Ferrante d’Aragona.
I confronti testuali proposti da Carolina Stromboli sono uno dei punti di forza del volume. Le ricette comuni, le somiglianze formali, le influenze iberiche (in particolare catalane) e gli arabismi come coscossone (couscous) e almogiavole (frittelle di ricotta), testimoniano la complessità culturale di un’epoca in cui la cucina era terreno di scambio tra mondi lontani.
Il ricettario, curato con perizia filologica e arricchito da un glossario dettagliato è uno strumento prezioso per linguisti, storici, studiosi della cucina ma e’ anche per chi ama curiosare tra i sapori perduti, per chi crede che il cibo sia una forma di racconto e che ogni parola — anche la più arcaica — possa contenere un mondo. È un invito a sedersi alla tavola della storia, ad ascoltare la voce dimenticata di un cuoco del Cinquecento, a scoprire quanto può essere moderno un piatto antico. Perché, alla fine, cucinare è sempre un modo per ricordare. E leggere questo libro è un modo per ritrovare — tra spezie, manoscritti , lingua e memoria — il sapore di ciò che siamo stati.
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