“Chi tace di fronte al male, lo favorisce. Chi non denuncia l’ingiustizia, ne diventa complice.”
— Dietrich Bonhoeffer
Da mesi assistiamo a ciò che è ormai impossibile definire semplicemente una “crisi” o un “conflitto”. Quello che accade a Gaza è un crimine continuo, metodico e impunito. Non può essere descritto come una guerra convenzionale, né ridotto alle sue cause storiche o alle violenze del 7 ottobre. Si tratta di una strategia sistematica di punizione collettiva, di devastazione totale, di distruzione della vita civile.
Non è un “danno collaterale”, come ipocritamente lo definiscono molti sostenitori del governo israeliano. È un progetto di annientamento, condotto con lucida intenzionalità, davanti agli occhi del mondo.
I numeri parlano da soli: quasi il 5% della popolazione di Gaza è stata uccisa. La stragrande maggioranza dei morti sono civili, tra cui migliaia di bambini. Più di 3.000 minori hanno subito amputazioni. “Come farò ad abbracciare mia madre?”, ha chiesto un bambino senza più le braccia. Questa non è una tragedia accidentale. È una volontà politica.
A Gaza la fame è diventata un’arma, distribuita con il contagocce, accompagnata dal tiro al bersaglio durante la consegna degli aiuti. Si colpiscono i civili per spingerli alla fuga. Si distruggono ospedali, scuole, reti idriche, panifici. Si mira a rendere impossibile la vita.
L’intento non è più soltanto militare. È etnico. È sociale. È simbolico. L’obiettivo non è la sconfitta di Hamas, ma la disintegrazione della società palestinese, la sua cancellazione dallo spazio storico e geografico. Questo configura, secondo i criteri dell’ONU e del diritto internazionale, le condizioni oggettive del genocidio.
Le parole contano, e oggi sono abusate per mascherare la verità. Parlare di “equivocità”, “complessità”, “asimmetria” senza nominare la sostanza di ciò che sta accadendo significa diventare complici del silenzio internazionale che ha consentito il massacro.
Non si può più accettare che la critica all’operato di Israele venga sistematicamente neutralizzata come antisemitismo. Questo riflesso condizionato serve solo a proteggere l’impunità. Le leggi internazionali, le convenzioni di Ginevra, i principi fondamentali dell’umanità non si fermano davanti a nessuna bandiera. Non esistono Stati “oltre la legge”.
L’occupazione israeliana non è un’emergenza recente. La memoria di Sabra e Chatila, del Libano, delle offensive a Gaza del 2008, 2014, 2021 è viva e tragicamente coerente. Ma ciò che distingue la violenza attuale è la sua intensità assoluta, l’uso pianificato della fame e del terrore come strumenti di governo, l’assenza di qualsiasi limite morale o giuridico.
In Cisgiordania i coloni, spalleggiati dalle autorità, agiscono come pionieri del Far West: incendi, espropri, violenze quotidiane. E mentre gli anziani muoiono di fame facendo la fila per un sacco di farina, Netanyahu parla di “città umanitarie” — ovvero riserve etniche per i sopravvissuti.
Il punto è chiaro: Israele non riconosce più altro linguaggio che quello della forza. Ogni appello al dialogo, ogni timida pressione diplomatica, ogni risoluzione delle Nazioni Unite è stata ignorata, derisa, contraddetta da nuove bombe.
E allora, se Israele comprende solo la forza, va fermato con la forza. Non quella delle armi, ma quella del diritto applicato con decisione. Servono sanzioni economiche vincolanti, embargo sulle armi, sospensione dei rapporti commerciali, processi internazionali per crimini di guerra. Servono misure concrete, proporzionate alla gravità dei fatti.
Non è più accettabile che Paesi che si dichiarano “difensori dei diritti umani” continuino a fornire copertura politica e militare a chi bombarda convogli umanitari e campi profughi. Non è più accettabile che l’Unione Europea resti inerte, che gli Stati Uniti continuino a blindare Israele nel Consiglio di Sicurezza, che la stampa mainstream attenui o eluda la realtà.
L’Occidente deve smettere di essere complice. Smettere di fornire armamenti, copertura diplomatica, narrazioni ambigue. Ogni giorno in più di passività è un giorno di morte per centinaia di innocenti.
Gaza non è una zona grigia. È il termometro morale del nostro tempo. Continuare a osservare, a spiegare, a commentare, senza agire, significa arrendersi al peggio della storia.
Oggi non c’è spazio per la neutralità. Non c’è terza via tra giustizia e complicità. Non si può essere equidistanti tra chi bombarda i bambini e chi raccoglie i corpi. Le democrazie che non sanno più distinguere tra il diritto e l’orrore diventano esse stesse parte dell’orrore.
Ogni persona che difende il diritto alla vita, ogni cittadino che crede nel valore della dignità umana, ogni istituzione che si proclama democratica deve alzare la voce, agire, rompere l’invisibile patto del silenzio.
Fermare Israele oggi significa salvare ciò che resta dell’idea stessa di civiltà giuridica.
E se questo linguaggio è duro, è perché più duro è stato il suono delle bombe, delle urla, dei corpi mutilati. Più insopportabile è il silenzio dell’ipocrisia.
È ora di scegliere da che parte stare.