Un patrimonio culturale unico, dove il Natale diventa storia e arte da ammirare.
C’è un filo sottile che tiene insieme Melilli e le sue storie, quelle raccontate attorno al fuoco nelle sere d’inverno, quando il buio arriva presto e le case si riempiono di voci. Ogni anno, quando dicembre porta con sé il suo carico di freddo e attesa, il borgo si trasforma in un teatro diffuso dove la tradizione del presepe diventa linguaggio collettivo, memoria condivisa, promessa di continuità.
Non è una semplice esposizione natalizia, ma un percorso che attraversa chiese, sale storiche e angoli dimenticati, restituendo dignità a ciò che il tempo rischia di cancellare. Tre luoghi, tre modi diversi di raccontare la Natività, tre sguardi sulla stessa storia che si intrecciano fino a formare un unico grande racconto.
La Chiesa Madre: dove il mondo si incontra
Entrare nella Chiesa Madre durante il periodo natalizio significa varcare una soglia che va oltre la devozione. Le navate accolgono ventidue grandi teche in legno disposte lungo i corridori laterali. Ogni teca è un mondo a sé, una finestra aperta su culture lontane che hanno scelto di raccontare la Natività con i loro materiali, le loro forme, la loro sensibilità.
Ci sono presepi che arrivano da paesi dove la neve è di casa, realizzati con legni scuri e muschi nordici. Altri portano i colori accesi dell’Africa, con figure dalle vesti sgargianti e capanne di paglia intrecciata. Altri ancora parlano il linguaggio sobrio dell’Oriente, dove l’essenzialità diventa forma d’arte. È un dialogo silenzioso ma eloquente, un incontro tra tradizioni che si rispettano e si riconoscono nella stessa ricerca di senso.

Le teche sono incorniciate con cura, il legno lavorato con pazienza. La Chiesa Madre non perde la sua sacralità in questo allestimento: trova un respiro più ampio, una vocazione universale che va oltre i confini del borgo.
Il Collegio di Maria: la città nel presepe
L’ex Collegio di Maria custodisce il cuore pulsante del percorso: una sala di ottanta metri quadrati che accoglie un presepe monumentale frutto di quasi vent’anni di lavoro. Qui la comunità ha ricostruito, pezzo dopo pezzo, la propria città: chiese, piazze, vicoli, palazzi storici.
L’artista Vincenzo Velardita ha modellato oltre trecento figure in terracotta, alte pochi centimetri ma straordinariamente espressive. Ogni personaggio è colto in un gesto preciso: la donna che stende il bucato, l’uomo che sistema la legna, il bambino che corre, il vecchio seduto davanti alla porta. Sono gesti quotidiani che raccontano una ritualità domestica fatta di piccole cose, di abitudini ripetute fino a diventare identità.
Si riconoscono i luoghi simbolo del borgo: la Chiesa Madre con il campanile, Palazzo Vinci Cannata, lo Spirito Santo, il Palazzo Comunale con la Madonna delle Grazie, la Basilica di San Sebastiano. E poi c’è l’antico bevaio di contrada Balatizzo, ricostruito per non lasciare che scomparisse del tutto dalla memoria collettiva.
Un sistema di luci e meccanismi anima l’intera scena: le luci cambiano seguendo il ritmo delle ore, dall’alba che si accende piano al mezzogiorno che inonda tutto, fino alla notte punteggiata dalle finestre illuminate. I personaggi si muovono grazie a piccoli motori: una porta che si apre, una finestra che si chiude, una figura che si affaccia. E i suoni: passi sui sampietrini, voci lontane, campane che battono le ore.
Le scolaresche dei paesi vicini arrivano rumorose, poi si zittiscono rapite da quel mondo piccolissimo che sembra più vero della realtà.
Sant’Antonio: il presepe che rompe gli schemi
La Chiesa di Sant’Antonio Abate domina il quartiere Torre dal Cinquecento, con la sua facciata severa e il portale di bronzo scolpito da Domenico Girbino. Il campanile custodisce la campana più antica, quella del 1526.
Qui nasce “U Presepi i Sant’Antonio”, opera di Michele Milardo, Salvatore Zimmitti – maestro del sapone d’olio d’oliva fatto secondo tradizione – e il pittore Federico Nocera. Il presepe sceglie l’aria aperta, i luoghi che identificano Melilli: la scalinata delle Cento Scale e soprattutto la Pirrera di Sant’Antonio, reinterpretata come grotta naturale che accoglie la Sacra Famiglia. Sullo sfondo, Melilli osserva, sospesa in un crepuscolo che sa di fumo di legna e vento d’inverno.
Le figure in terracotta, provenienti da botteghe catanesi, sembrano ferme in un istante preciso. Il presepe di sapone ha qualcosa di tattile, di concreto: chiede di essere vissuto, attraversato con lo sguardo, riconosciuto nei suoi luoghi quotidiani.
Il presepe monumentale dell’ex Istituto Salesiano: la Sicilia che respira
L’antico Istituto Salesiano “Maria Ausiliatrice” custodisce nella sala del refettorio un presepe monumentale disposto a ferro di cavallo. La struttura abbraccia chi entra, costringendolo a camminare dentro la scena. Al centro, sotto un arco scenografico, la Natività con i suonatori di ciaramedda.
Realizzato con pietra calcarea locale, ricrea un frammento di vita siciliana tra Ottocento e Novecento. Vicino al fiume, le lavandaie risalgono con le ceste di panni, mentre gli uomini portano anfore d’acqua e ceste di pesce. Gli agricoltori espongono cavolfiori, zucche, carciofi. I pastori radunano mucche, pecore e capre dirette ai pascoli. Nelle stalle, agnellini e vitellini succhiano il latte. Su assi di legno, formaggi di ogni forma: pecorini, caciocavalli, ricotte salate.
La vita pulsa ovunque: asini che ragliano, galline che razzolano, madri che cullano neonati. Dalla locanda escono uomini arrossati dal vino, in attesa del brodo di gallina. I panettieri sfornano pani dorati e focacce fumanti. I focolari scaldano mani e conversazioni.
Un gioco di luci accompagna il passare delle ore: l’alba azzurrina, il pomeriggio dorato, la notte stellata con le finestre illuminate una dopo l’altra. E quando cala il buio, si leva una voce: la Madonna canta una ninna nanna al Bambino. È una melodia sottile che calma anche il pianto più ostinato. In quel momento tutto il presepe – uomini, animali, pietre – trattiene il fiato, come se la quiete del mondo dipendesse da quel respiro piccolissimo.
Tre presepi, tre linguaggi, un’unica radice. Melilli sceglie ogni anno di raccontarsi attraverso la Natività, senza retorica né folclore vuoto. Lo fa con la concretezza di chi sa che le tradizioni o si vivono o muoiono, che la memoria o si coltiva o si perde.
Si ringrazia il Professor Giuseppe Immè per la cortese disponibilità e per aver concesso l’uso delle informazioni fornite.

