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L’ALTRA FACCIA DELLA RESISTENZA

Mario Setta
Un aspetto poco conosciuto della Resistenza in Abruzzo è quello dell’aiuto ai prigionieri di guerra alleati in fuga dai campi di concentramento in Italia, dopo l’8 settembre. In questa fase della guerra alcune donne grazie al loro coraggio hanno salvato numerosi fuggiaschi. Qui le storie commoventi e romantiche di queste donne che grazie al loro eroismo hanno scritto una grande pagina della Storia italiana .

Iride Imperoli-Colaprete

Donna vibrante di vita e appassionatamente attratta da ogni forma di piacere che l’esistenza poteva offrirle” la descrive John Furman. Nasce a Valmontone, in provincia di Frosinone, il 23.4.1918 da Carlo Imperoli e da Paolina Masciangioli. Il padre muore quando Iride ha pochi mesi. La madre, originaria di Sulmona, sposa in seconde nozze un vedovo con 6 figli, Stefano Marcantonio, dal quale avrà un’altra figlia, Maria. Iride risiede a Sulmona e frequenta la scuola elementare fino alla quinta. Le sarebbe piaciuto continuare gli studi, imparare la musica o studiare canto. Trascorre la sua giovinezza tra Roma e Sulmona. Consegue il diploma di sarta, imparando l’arte alla scuola di Teresa Taglieri-Davini. Va ad insegnare a Rivisondoli. Nel periodo della guerra, abita a Sulmona in via del Borghetto. Finita la guerra, sposerà Ettore Colaprete. Un pomeriggio del settembre ’43, incontra a passeggio nella villa comunale di Sulmona un ufficiale italiano, interprete per conto degli ufficiali inglesi. È presente anche un Generale inglese prigioniero a Villa Orsini che, felicemente sorpreso del fatto che Iride possa andare periodicamente a Roma, le propone di portare un biglietto all’ambasciata inglese presso la Santa Sede. Iride accetta e dopo qualche giorno riceve il biglietto da parte del Generale.

«Voleva addirittura darmi anche l’anello d’oro che portava al dito, ma io rifiutai», aggiunge. A Roma, Iride si reca da Mons. O’Flaherty e gli consegna il biglietto, che aveva prudentemente nascosto in mezzo ad un gomitolo di lana. Le propongono di mettersi a servizio dell’ambasciata per mantenere i contatti con i prigionieri di Sulmona. Iride accetta. Si apre, quindi, un’altra via di fuga, oltre a quella dell’attraversamento delle montagne per raggiungere le linee alleate. Varie volte, tre o quattro, ma tutte rischiose e drammatiche, Iride Imperoli riuscirà ad accompagnare in treno da Sulmona a Roma, a piccoli gruppi, gli ex prigionieri del Campo 78, muniti di documenti falsi, rilasciati dal personale del Comune di Sulmona.

 

J.P. Gallagher, nel libro La primula rossa del Vaticano, (Mursia, Milano 1967), scrive: «Iride aveva svolto un lavoro magnifico per i fuggiaschi… sembrava capace di riuscire in tutto quel che decideva di fare…». E William Simpson: «Iride si stava comportandosi magnificamente nei nostri confronti e le eravamo profondamente grati.» (La guerra in casa 1943-1944, La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, Qualevita, 2004). Absalom ne tenta un profilo psicologico: «Un altro fuggiasco (…) era il capitano William Simpson, uno scozzese che sarebbe diventato l’altro principale agente di Derry nella Rome Organization, e infine il primo capo dell’Asc (Allied Screening Commission). Sia Furman che Simpson presero il primo contatto con Derry tramite Iride, una ragazza di Sulmona la cui personalità e la cui fortunosa carriera a servizio dei fuggiaschi e delle organizzazioni a loro favore si prestano bene ad illustrare l’attrattiva che il coinvolgimento in un tale lavoro aveva per i membri “marginali” della società, abituati ad assumersi dei rischi e generalmente poco rispettosi delle autorità costituite, ma spesso vulnerabili da un punto di vista psicologico: essi cercavano, dal loro improvviso e imprevisto contatto con la guerra clandestina, materiale per le loro fantasie di personale realizzazione, di avanzamento sociale e perfino di redenzione».

 

Queste, le deduzioni che lo storico Roger Absalom trae dal suo lavoro di ricerca. Al contrario, dall’analisi dell’ambiente, dalla biografia dei personaggi, dal contatto diretto con i protagonisti sopravvissuti, ci sembra di poter desumere che non si è trattato di particolare “attrattiva”, ma di senso di responsabilità, di orgoglio dei poveri che hanno dimostrato, in un particolare momento, la loro dignità. Spesso, invece, non pochi inglesi fecero pesare la loro superiorità. La stessa Iride ricorda che John Furman conservava sempre una certa alterigia da gentleman, dimostrando diffidenza verso gli italiani che trattava spesso con aria di sufficienza. Al di là di una diversità di valutazione, i fatti e le persone che ne furono coinvolte restano fatti e persone reali. L’analisi di un fenomeno così diffuso e comunque collocato entro confini geograficamente ristretti può condurre a due forme estreme di giudizio: l’esaltazione retorica o la riduzione sprezzante. Entrambe da evitarsi. Ed è possibile solo nella misura in cui ci si attiene scrupolosamente alla nuda verità. Nel 2004, a Sulmona, in occasione della presentazione, del libro di William Simpson, in traduzione italiana, lo storico Roger Absalom ha avuto modo di incontrare Iride Imperoli Colaprete e di chiarire molti aspetti di quelle vicende. Un incontro amichevole e commovente tra il grande storico e la straordinaria protagonista. Iride è scomparsa il 9 agosto 2006. Resta, in molte testimonianze di ex-prigionieri, la memoria delle sue gesta.

 

Maria Di Marzio

Nata a Campo di Giove il 6.12.1906, era una donna di paese, una di quelle donne del passato, che dovevano lavorare come gli uomini per “mandare avanti la casa”, perché i mariti stavano in guerra. Il marito di Maria, Matteo Di Marzio, era stato infatti richiamato. Avevano 4 figli, un maschio e tre femmine. Maria doveva lavorare la campagna, pascolare le pecore, eseguire le incombenze domestiche. Nell’autunno del 1943 incontra i prigionieri fuggiaschi. Racconta: «Venivano dalla montagna e arrivavano alla mia casa, perché si trovava fuori dal paese, in cima al colle. Una volta vennero in sette. Dovetti trovare sette vestiti e dar da mangiare a sette bocche affamate. Li feci sistemare nella soffitta, dove c’era una terrazzina da cui potevano affacciarsi. Gli zaini che portavano li abbiamo nascosti sotto terra. Al mattino portavo loro il latte e si facevano la zuppetta. Stettero a casa quaranta giorni. Eravamo, a volte, una ventina a mangiare, perché arrivarono anche altre persone, che però volevano essere servite e riverite. Mi dicevano di mandar via i prigionieri, ma io rispondevo: “questi non li posso proprio cacciare”. Fu così che una di queste persone va a Sulmona e fa la spia. Il podestà, don Ciccio Puglielli, mi fa dire di allontanare i prigionieri. Mio figlio però li accompagna in una capanna, vicino a Fonte Romana e portavamo loro da mangiare. Arrivano i tedeschi e mi chiedono dove sono i prigionieri. Io rispondo che non so niente. Mi danno tre giorni di tempo per consegnarli. Vengono di nuovo e questa volta mi puntano in petto il fucile dicendomi di parlare e di dire dove sono i prigionieri. Mi dicono che bruceranno la casa e che mi ammazzeranno. Mentre mi tengono ancora il fucile puntato sul petto, rispondo: “ammazzatemi pure, ma io non ho visto nessuno”. La gente che stava vicino si era impaurita. Ma io continuavo a dire di non conoscere nessun prigioniero. Alla fine i tedeschi non spararono e mi lasciarono, andandosene via. Finita la guerra mi hanno dato un premio di quattromila lire. Non so se fosse quella la somma che mi spettava. D’altra parte io non so molte cose. I’ sacce fa’ sole la firme pe’ jì ‘ngalere (io so fare solo la firma per andare in galera)». Maria Di Marzio ha ricevuto un attestato di benemerenza «perché fiera figlia della generosa terra d’Abruzzo durante l’occupazione nazista 1943-1944 con rischio della incolumità personale aiutò, incoraggiò e difese dal tedesco invasore sette ufficiali alleati evasi dal campo di concentramento di Fonte D’Amore». Le è stata inoltre conferita la médaille de la Reconnaissance Française, perché gran parte dei prigionieri salvati erano di nazionalità francese. Alcuni prigionieri sono tornati a rivederla.

La guerra non uccide l’amore

Nell’immediato dopoguerra, si ebbero numerosi matrimoni tra italiane ed ex-prigionieri anglo-americani, aiutati dalle famiglie abruzzesi. Ne riportiamo un caso. Famiglia Salutari, Forca Caruso – Castelvecchio Subequo. Elisabetta Salutari nata il 21.12.1933, racconta: «Nel mese di settembre 1943, mio fratello Giovanni, che era pastore e si trovava a pascolare le pecore, incontra sul monte Ventrino un prigioniero inglese che girovagava da quelle parti. L’inglese gli rivolge la parola e gli fa capire con i gesti che ha fame e vorrebbe un po’ di pane. Mio fratello non aveva niente con sé ma gli dice di venire da noi, suoi parenti, che stavamo in un campo vicino a seminare. La mia famiglia era composta da mio padre Antonio, mia madre e sei figli: cinque femmine e un maschio. Arriva infatti dove stavamo lavorando e lo accogliamo. Mio padre gli fa capire che può restare da noi. Finito il lavoro andiamo a casa, che era una delle Casette di Forca Caruso, dove allora abitavano circa 70-80 persone. Mia madre aveva cucinato le “taccozze”, una specie di tagliatelle senza uova e ci mettiamo tutti a tavola. Il prigioniero mangia e dopo mio padre lo ospita in casa facendolo dormire nel pagliaio. Si chiamava William Pusey. Lo chiamavamo Guglielmo. Dopo qualche giorno che sta con noi, ci dice che ha un amico rimasto nascosto sul monte Ventrino e chiede se può andare a chiamarlo e far venire anche lui. Esce e dopo un po’ di tempo torna a casa accompagnato da un altro prigioniero. Si chiamava L. Jagger. Rimasero parecchi mesi presso di noi. Sapevamo che era proibito tenere in casa gli inglesi. Era pericoloso. Tanto più che i tedeschi passavano spesso sulla strada che congiunge la Marsica con la Valle Subequana e si fermavano a Forca Caruso. Anche tutta la gente delle Casette sapeva che noi aiutavamo gli inglesi, ma nessuno ci ha fatto la spia, svelando ai tedeschi o ad altri italiani che i prigionieri si nascondevano a casa nostra. Jagger era sposato. Rimase con noi fino al mese di marzo del 1944. Poi attraversò le linee e si ricongiunse con l’esercito anglo-americano. William stava con noi e s’era innamorato di mia sorella Iolanda che aveva 17 anni. Era nata il 24.10.1926. La gente un po’ malignava, ma noi ne eravamo contenti. Finita la guerra in Abruzzo e partiti i tedeschi, nel mese di giugno 1944, William, che aveva imparato a parlare italiano, si mise su un balcone e annunciò alla gente di Castelvecchio che era innamorato di Iolanda e che presto l’avrebbe sposata. Infatti il 25 giugno 1944 fu celebrato il matrimonio in chiesa, avendo anche accettato di convertirsi al Cattolicesimo».

 

Nella parrocchia dei SS. Battista ed Evangelista di Castelvecchio Subequo, sul Registro dei Matrimoni, è conservato l’Atto di Matrimonio, celebrato dal parroco Sac. Paolo De Crescentiis, che conferma quanto narrato da Elisabetta Salutari e che cioè Guglielmo Giorgio Pusey, nato a Hythe Southampton il 10.3.1912, di professione ufficiale dell’esercito britannico, e Iolanda Salutari, figlia di Antonio e Maria Musti, contrassero il matrimonio secondo le disposizioni della Santa Romana Chiesa il 25 giugno 1944. Le pubblicazioni ecclesiastiche erano state eseguite dal 18 al 24 giugno, mentre per quelle civili era stata applicata la norma dell’art. 13 della Istruzione 78 della Sacra Congregazione dei Sacramenti circa l’esecuzione dell’art. 34 del Concordato stipulato l’11 febbraio 1929 tra la S. Sede e il Regno d’ Italia, relativo alla celebrazione del matrimonio agli effetti civili.

«Purtroppo, dopo qualche giorno – continua Elisabetta Salutari nella sua esposizione – William dovette andare a Napoli con altri soldati inglesi. Mia sorella Iolanda dovette restare a casa. La gente le diceva che l’inglese non sarebbe più tornato, ma mia sorella era sicura del contrario. Infatti, dopo qualche mese William torna a Forca Caruso e riparte portando con sé la moglie in Inghilterra. Si sistemarono a Southampton, dove sono vissuti, dando alla luce tre figlie. William era militare di carriera. Una volta fu ospite della regina Elisabetta II. Mia sorella Iolanda è deceduta in Inghilterra nel 1972, dove si trova la sua tomba. Successivamente anche mio cognato William muore, nel 1983. Ma prima di morire esprime quali ultime volontà che il suo corpo sarebbe stato cremato e le ceneri divise: una parte deposte accanto alla tomba della moglie Iolanda, in Inghilterra, e l’altra sparsa nei luoghi di Forca Caruso, dove aveva trovato l’Amore e trascorso il più bel periodo della sua vita.» Le figlie, venute in Italia dopo la morte del padre, hanno esaudito le sue volontà.

 

Cfr. “Terra di Libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale”, a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta, ed. Tracce, Fondazione Pescarabruzzo)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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