Home Cronaca Mafia: Nessun eroe solo servitori dello stato!

Mafia: Nessun eroe solo servitori dello stato!

Gli anni prima delle stragi.

Erano le 17,56 quando un’esplosione squarcia l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, nei pressi dell’uscita per Capaci, ben 5 quintali di tritolo distruggono cento metri di asfalto facendo saltare verso il cielo le auto blindate. Muore Giovanni Falcone, magistrato simbolo della lotta antimafia. la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro Era il 23 maggio 1992.

19 luglio, 57 giorni dopo. Il magistrato Paolo Borsellino, impegnato con Falcone nella lotta alle cosche, va a trovare la madre in via Mariano D’Amelio, a Palermo. Alle 16:58 un’altra tremenda esplosione: questa volta in piena città. Seguono giorni convulsi. La famiglia Borsellino, in polemica con le autorità, non accetta i funerali di Stato. Non vuole la rituale parata dei politici. E alle esequie degli agenti di scorta una dura contestazione accoglie i vertici istituzionali. Il neopresidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è trascinato a stento fuori dalla Cattedrale di Palermo, con il capo della polizia Vincenzo Parisi che gli fa da scudo.

Palermo, il quartiere della Kalsa unisce i due magistrati….

Entrambi nacquero a Palermo: Giovanni il 20 maggio 1939, Paolo 8 mesi dopo, il 19 gennaio. Crebbero nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia. Abitavano a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altro e furono amici fin da bambini: si ritrovavano a giocare in piazza della Magione.

Nella vita del piccolo Giovanni c’erano la scuola, l’Azione cattolica e pochi divertimenti, scherzava dicendo che “con i 7 e gli 8, la mia pagella veniva considerata brutta”.

In casa Borsellino, invece, l’ambiente era più vivace: c’erano spesso amici in visita e si discuteva di libri e di filosofia. Paolo in greco aveva 10, si alzava alle 5 del mattino per studiare e la sua memoria prodigiosa faceva il resto. I suoi genitori possedevano una farmacia in via della Vetreria, e anche per questo il padre era un’autorità nel quartiere. Legati anche dagli studi sin dal Liceo. Giovanni e Paolo frequentarono tutti e due il liceo classico. Per il primo le scuole secondarie furono particolarmente importanti: grazie al suo professore di storia e filosofia, Franco Salvo, imparò a sfuggire ai dogmi e a coltivare il dubbio, fino ad abbandonare il rito della messa domenicale con la madre. Dopo la maturità entrò all’Accademia militare di Livorno, poi ci ripensò e si iscrisse a giurisprudenza. Borsellino invece optò subito per gli studi di Legge, ma mentre frequentava l’università gli morì il padre, e le condizioni economiche della sua famiglia peggiorarono. Nonostante le difficoltà, a 22 anni si laureò con 110 e lode.

Paolo aveva cominciato la sua carriera al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ebbe il primo incarico direttivo – pretore a Mazara del Vallo (Trapani) – e nel dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, dalla quale avrà 3 figli. Nel 1969 fu trasferito a Monreale, vicino a Palermo, dove lavorò fianco a fianco con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, ucciso dalla mafia nel 1980.

Falcone, intanto, si era trasferito anche lui a Palermo, dove lavorò al processo al costruttore edile Rosario Spatola, accusato di associazione mafiosa. Fu così che i due vecchi amici tornarono in contatto e cominciarono a scambiarsi informazioni sulle inchieste. Il processo Spatola mise tra l’altro in luce le qualità di Falcone, che accompagnò l’istruttoria con indagini bancarie e societarie: un metodo di indagine innovativo che si rivelò efficacissimo.

Falcone si era accorto che spesso gli indagati e i membri delle cosche sotto inchiesta venivano uccisi o sparivano misteriosamente. Era cominciata una guerra di mafia, che tra gli ultimi mesi del 1981 e i primi del 1982 causò nel capoluogo siciliano un morto ogni tre giorni. Alla fine, le vittime furono circa 1.200, che andarono ad assottigliare le file delle cosche nemiche del “capo dei capi”, Totò Riina. Si scoprì, infatti, che dietro gli omicidi c’erano i “viddani” (villani, cioè contadini) di Corleone, circa settanta persone provenienti dal paese vicino a Palermo. E Riina era il loro capo. Il successo di Riina, Giuseppe Ayala durante il maxiprocesso disse che fu «frutto della straordinaria violenza con la quale egli agì: senza precedenti anche per Cosa nostra».

La “guerra” finì nel 1983, ma già l’anno prima la violenza dei corleonesi si era rivolta contro lo Stato: la mattina del 30 aprile 1982 Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista e membro della Commissione antimafia, fu ucciso a Palermo mentre si recava in auto alla sede del partito. Per rispondere alla violenza mafiosa, fu inviato in Sicilia, dal governo il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato prefetto antimafia a Palermo, protagonista della lotta al terrorismo delle Brigate rosse. Qualche giorno prima Ed il 3 settembre fu freddato a Palermo con la moglie Emanuela Setti Carraro. La stessa mattina in cui incontrando il console generale degli Stati Uniti a Palermo, Ralph Jones, gli disse di come “ I politici l’avessero dimenticato in merito alla sua richiesta di ottenere i poteri straordinari promessigli per affrontare la mafia” e chiedendogli di intervenire presso il presidente del Consiglio Spadolini.

Le immagini di quei due corpi riversi uno sull’altro dentro un’A112 bianca, crivellati di colpi, sono rimasti per sempre nella mente di molti. E sul luogo della strage comparve un cartello: “Qui muore la speranza dei palermitani onesti”.

Ma Purtroppo l’omicidio del generale Dalla Chiesa fu solo una tappa della strategia di Totò Riina, che voleva lo scontro frontale con lo Stato, uccisione che sembra, così come scritto anche nel libro del magistrato Sebastiano Ardita “Catania bene”[1], fosse stato in accordo con Nitto Santapaola, reggente della mafia nel catanese, ma che non trovò forza di prova nelle indagini di Falcone,. Il 29 luglio 1983 il passo successivo: un’autobomba ammazzò Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Sostituito da Antonino Caponnetto, 63 anni. Siciliano di Caltanissetta, Caponnetto lasciò la famiglia a Firenze per sottoporsi a una vita da recluso tra la caserma della Guardia di finanza e il suo ufficio. Il magistrato non aveva esperienza di processi di mafia, ma era nota la sua serietà professionale. Falcone lo chiamò subito per dirgli di arrivare in fretta a Palermo.

Caponnetto si rese conto della necessità di costituire un pool di magistrati per frazionare i rischi dei singoli e avere una visione unitaria del fenomeno mafioso. Il primo a essere scelto fu proprio Falcone, che già all’epoca era un protagonista della lotta a Cosa nostra. Poi arrivò Giuseppe Di Lello Finuoli, che vantava una certa esperienza di processi di mafia ed era stato il pupillo di Rocco Chinnici. Su consiglio di Falcone, fu scelto anche Borsellino. È qualche tempo dopo si aggiunse Leonardo Guarnotta, uno dei procuratori con più anni di esperienza.

Il pool iniziò a lavorare a gran ritmo, mentre sulla scena stava arrivando la stagione dei pentiti. A partire da Tommaso Buscetta, “don Masino”, che nella guerra scatenata da Totò Riina aveva perso due figli, un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Iniziò a collaborare, ma voleva parlare solo con il numero uno del pool palermitano: Giovanni Falcone. Buscetta dichiarò di fidarsi solo di lui e del vicequestore Gianni De Gennaro. Il 29 settembre 1984 vennero spiccati 366 mandati di arresto. Falcone dichiara che «Prima di lui non avevamo che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo iniziato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, le tecniche di reclutamento, le funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno».

Ovviamente la mafia, Riina, non rimane a guardare. Il 28 luglio 1985 fu ucciso Beppe Montana, capo della Sezione latitanti della polizia di Palermo, e pochi giorni più tardi Ninni Cassarà, vicedirigente della squadra mobile e stretto collaboratore di Falcone.

La paura di altri attentati era forte. I due magistrati, con le rispettive famiglie, furono trasferiti in fretta e furia all’Asinara, l’isola-carcere a nord-ovest della Sardegna, per concludere l’istruttoria del maxiprocesso, che fu depositata l’8 novembre di quello stesso anno. Alla fine di quel periodo, durato 33 giorni effettivi, lo Stato ebbe l’ardire di presentare ai magistrati il conto del soggiorno: 415.800 lire a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno. Fu uno dei momenti di maggiore amarezza per i due magistrati. Non solo. Scossa dagli eventi, Lucia, la figlia quindicenne di Borsellino, fu colpita da una grave forma di anoressia che la portò a pesare soltanto 30 chili.

Il maxiprocesso, con ben 475 imputati, fu il più grande attacco alla mafia mai condotto in Italia. Ebbe inizio il 10 febbraio 1986, ma a maggio Paolo Borsellino fu nominato procuratore della repubblica a Marsala (Trapani).

Il maxiprocesso si chiuse il 16 dicembre 1987 con 360 condanne e 114 assoluzioni. E, con questo, Caponnetto ritenne chiusa la sua esperienza palermitana. Era ragionevolmente sicuro che il suo posto sarebbe stato preso da Falcone. Ma così non fu. Il clima politico era sfavorevole. Alle elezioni di giugno il partito socialista aveva raddoppiato i suoi voti e il nuovo ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, si era dichiarato contro il programma di protezione dei pentiti. Tutto questo ebbe enormi riflessi anche all’interno del Csm, che il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, bocciando Falcone. Quel giorno l’anzianità vinse sulla competenza. Potremmo definirlo il primo colpo sparato a Falcone….

Infatti, Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino provò a reagire, nonostante lavorasse a Marsala. In un’intervista all’Unità disse: «Hanno tolto a Falcone la titolarità delle grandi inchieste antimafia. Le indagini di polizia giudiziaria sono bloccate da anni. La squadra mobile di Palermo non è mai stata ricostituita. Ho l’impressione di grandi manovre per smantellare il pool antimafia».

Questo lo isolava sempre di più di fatto…

Un’altra sconfitta arrivò quando il governo nominò Domenico Sica alto commissario per la lotta antimafia, bocciando la sua candidatura. Falcone si candidò allora al Csm, ma non fu eletto. Lettere anonime lo accusarono di una gestione discutibile del pentito Salvatore Contorno, e nel giugno del 1989 fu sventato un attentato ai suoi danni.

Era la fine del pool: Falcone chiese di essere destinato ad altro ufficio e fu nominato procuratore aggiunto presso la Procura della repubblica. Appoggiò la nomina di Pietro Giammanco, il suo superiore, a procuratore capo di Palermo, ma da questi fu lentamente messo da parte e ostacolato. Infine, Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e fino ad allora in ottimi rapporti con lui, lo accusò di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Per Falcone fu un periodo molto duro e maturò allora la scelta di accettare la proposta del nuovo ministro della Giustizia, Claudio Martelli, lasciando Palermo per la direzione degli Affari penali a Roma.

Nella capitale, però, Falcone non allentò il suo impegno contro la mafia. Con un decreto da lui ideato, infatti, tornarono in carcere gli imputati di Cosa Nostra scarcerati da una sentenza di Corrado Carnevale, il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione, soprannominato “ammazzasentenze”. Per disinnescare la possibile influenza di quest’ultimo sull’esito finale del maxiprocesso, inoltre, Falcone ideò la rotazione dei giudici della Corte suprema. Inoltre, il governo approvò un piano di Falcone per riorganizzare la lotta a Cosa Nostra. Nel frattempo, Paolo Borsellino era tornato a Palermo come procuratore aggiunto e con un ruolo direttivo nelle indagini di mafia.

Totò Riina volle vendicarsi, tanto per cominciare, di chi non gli aveva garantito l’impunità: il 12 marzo 1992, a Mondello, la spiaggia dei palermitani, fu assassinato Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia. Era il primo passo verso la strage di Capaci del 23 maggio.

Solo, ferito dalla morte del suo amico, ostacolato dal capo della procura palermitana Giammanco, nei due mesi successivi Paolo Borsellino lavorò con frenetica intensità. Sentì pentiti importanti, viaggiò in continuazione ed ebbe un incontro (dal quale uscì turbato) con il ministro dell’Interno Nicola Mancino, che però ha sempre dichiarato di non ricordare quel colloquio. Dietro le quinte, intanto, circolava un “papello”, un documento nel quale Totò Riina avanzava 12 richieste allo Stato. Si andava dalla revisione della sentenza del maxiprocesso all’annullamento del 41 bis, fino alla riforma della legge sui pentiti. Borsellino fu avvisato della trattativa da Liliana Ferraro, che aveva sostituito Falcone alla Direzione affari penali del Ministero, e sicuramente lui si oppose, firmando per sé una condanna a morte.

La sua era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”.

«La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dall’evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra», scrissero i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che concluse quasi quattro anni di indagini.

Il presunto tradimento di un generale dei carabinieri suo amico aumentò lo sconforto del magistrato, che sapeva di andare incontro alla morte. Secondo il colonnello dei carabinieri Umberto Sinico, Borsellino addirittura chiese che fosse lasciato “qualche spiraglio” alla sua sicurezza, perché altrimenti sarebbe stata colpita la sua famiglia.

Il 13 luglio, alla moglie Agnese disse: «La mafia mi ucciderà quando gli altri lo decideranno», e il 17, fra lo stupore di tutti, salutò a uno a uno i colleghi abbracciandoli. Il 19 luglio faceva molto caldo a Palermo. Il magistrato decise di andare a trovare la madre in via D’Amelio. Due minuti prima delle 17, l’esplosione dell’autobomba che uccise lui e 5 uomini della scorta si sentì in tutta Palermo. «È tutto finito», fu il commento di Antonino Caponnetto.

Ma lo stesso Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando anche che «Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse».

Il 17 novembre del 2017, nel reparto detenzione dell’Ospedale Maggiore di Parma, muore totò Riina mentre Bernardo Provenzano è morto mentre scontava l’ergastolo in regime di 41 bis. I corleonesi sono stati disarticolati, ma la lotta alla mafia è ancora lunga. La nebbia in Sicilia è ancora fitta.

Ed oggi, forse ancora più subdola, nascosta dietro a persone “perbene”, imprenditori, politici, amministratori…. Così come sembra emergere dai nuovi arresti avvenuti in Sicilia in questi giorni.

Ma è importante, anzi fondamentale, non tanto ricordare gli eroi alla lotta alle mafie, ma gli uomini, i servitori dello stato, che per spirito di servizio, si sono battuti per qual famoso bene comune, che coinvolge ognuno di noi!

 

 

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