Un manifesto a sostegno del popolo e degli intellettuali birmani a difesa della democrazia, dei diritti inviolabili, di intellettuali e civili in in generale di quel Paese martoriato e, per riflesso, di ogni angolo di mondo dove persistono condizioni analoghe.
Il manifesto è stato redatto nel maggio scorso dal poeta, scrittore e critico letterario Lorenzo Spurio e da egli stesso proposto a letterati e intellettuali, ricevendo numerose adesioni.
Da alcuni mesi le condizioni socio-politiche del Myanmar sono diventate una pura emergenza umanitaria. In realtà in quel paese, un tempo noto come Birmania, è da anni che si consumano violenze di vario tipo e, tra di esse, vi è senz’altro l’annullamento e la sospensione (ci si augura scongiurabile in breve) dei diritti civili, da tempo ormai duramente calpestati. Il contesto internazionale a noi distante, tanto per lontananza fisica quanto per cultura, condito da un ben più ampio proverbiale pizzico di disinteresse generale, fa di quella realtà un argomento che è poca cosa, anche in seno all’informazione occidentale.
La vicenda che forse più di ogni altra è stata richiamata per evidenziare al mondo intero l’intolleranza di un’oligarchia militare di potenti che non ha remore nell’usare la violenza sulla società civile è stata la deposizione della leader liberale Aung San Su Kyi (nata nel 1945, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1991) che, dopo più di venti anni tra galera e arresti domiciliari (sino al 2010), grazie al suo pluridecennale impegno politico nel 2016 venne elettaConsigliere di Stato del Myanmar, carica mantenuta sino a febbraio di quest’anno quando venne deposta da un gruppo dell’esercito che impose al Paese una giunta militare. Non si intende qui percorrere a ritroso le vicende storico-politiche che hanno determinato i fatti di sangue che ora macchiano quella terra, cosa che implicherebbe un approfondimento adeguato per meglio comprendere il contesto in cui determinate scelte e accadimenti sono maturati, ma porre l’attenzione sulla grave situazione odierna della popolazione birmanasottoposta ad angherie e limitazioni di ogni tipo. Ciò viene fatto prendendo lo spunto di lanciare, come indicato nel titolo, unManifesto a sostegno degli intellettuali birmani.
La cultura ha il compito di dire la sua e di agire, abbracciando lotte che sente vicine, consone alla propria impostazione, che ricalcano messaggi e contenuti vitali, nei quali crede, a difesa dei quali non può rimandare l’impegno, tergiversare, fingere di non ascoltare, allontanare da sé e, cosa ancor più grave, negare. Un popolo, quello birmano, che ha visto tacitare nei modi più nefandi i pensatori, i difensori di cultura, coloro che strenuamente hanno propugnato la libertà, rivendicato la giustizia sociale, osando reclamare la sopraffazione imposta dall’alto mediante l’esplicita volontà di non esimersi dal dire la propria, di palesare l’indignazione, di rifiutare con spregio e grande dignità il bavaglio dell’annullamento e della sudditanza. Il popolo birmano – nelle poche immagini che la TV ci ha fornito in alcuni momenti di protesta e di repressione governativa – ha già mandato il suo urlo verso il mondo, ha gridato la sua indignazione dinanzi alle asperità imposte dal dominio superomistico, sta a noi saper ascoltare e accettare il testimone.
Si dirà che è impossibile percepire una compartecipazione in maniera spontanea verso qualcosa che non ci riguarda da vicino… Ma, pensandoci bene, è realisticamente concreto che non interessa all’uomo – alla sua natura di entità dotata di raziocinio, senziente, emozionale, capace di comprendere – il dolore che viene arrecato a un suo simile? La sofferenza che potrebbe riguardare lui stesso in futuro? E – di certo – gli stessi obbrobri e le medesime nefandezze di cui nella sua storia familiare e nazionale porta i segni, tramanda il trauma, convive ancora oggi con le ferite prodotte dalla spietatezza e dal sonno della ragione? Pare di credere che non può coesistere tanta indifferenza dinanzi a un male recrudescente, potenzialmente capace d’intaccare qualsiasi società se tollerato alla base. Ecco, allora, che dal centro dell’Europa s’invola questo canto di solidarietà e di lotta partecipe contro le vessazioni che brutalizzano l’uomo, che lo pongono in una situazione di miseria, di dolore, di completa negazione dei diritti fondamentali.
Un’informativa del Pen Club International di marzo 2021 dava a conoscere dell’arresto di nove poeti del territorio del Myanmar: YawNa Than arrestato a Mandalay, Maung Yu Py arrestato a Myeik, SuuKhet Yint, Phyu Suu, Eain Myu Nyein, Pay Thoe, Sitt Naing e Tyarrestati nella vecchia capitale Yangoon, Nay Win arrestato a Meikhteela e Arr Sway arrestato a Monywa. La situazione è con molta probabilità ben più estesa e drammatica e la lista di intellettuali censurati, fatti oggetto di violenza, perseguitati o incarcerati ingiustamente è potenzialmente (non è possibile dire concretamente data la mancanza o non ufficialità di notizie accreditate) ben più ampia e continua, con il passare delle ore, a crescere.
Senza un appello unanime e concorde a salvaguardia dei difensori della libertà, a loro volta portavoce di una comunità in lotta, profondamente prevaricata, sentiamo di non essere granché utili nel far presente la nostra indignazione: deploriamo l’azione tesa a silenziare chi ha molto da dire, manifestare, dibattere, proporre, argomentare, testimoniare, condannare. Difficile appurare o avere notizie reali sullo stato di salute e sulle condizioni psicofisiche dei tanti internati nelle carceri del Paese, essendo stata messa duramente a tacere ogni forma di informazione non direttamente controllata dagli organi governativi. Tutto questo non fa ben sperare per la sorte deipoeti incarcerati come pure per la comunità locale tutta, in relazione alle dubbiose e delicate condizioni di un popolo ingiustamente martoriato che, come ogni altro, esige rispetto.
Il poeta e performer Saw Wai è stato (ed è continuamente) oggetto di una campagna personale d’odio e persecuzione per la sua attività antagonista e per la strenua opposizione ai generali al governo che gli è costato interrogatori, intimidazioni e periodi più o meno lunghi di prigionia. Il poeta dissenziente K Za Win (nato a Latpadaung nel 1982), dopo un periodo di detenzione nella prigione di Thayawaddy(da dove scrisse la lunga “Lettera dalla prigione” indirizzata a suo padre) è stato assassinato nel corso di una protesta che ha interessato il villaggio di Monywa il 3 marzo scorso. Stessa sorte per l’insegnante e poetessa Myint Myint Zin, uccisa nel corso di manifestazioni pacifiste contro il regime militare. Di pochi giorni fa l’ennesima efferatezza: la morte del poeta Khet Thi, sostenitore di Aung San Suu Kyi, ucciso a seguito di un interrogatorio dei governativi sulle sue attività di denuncia. L’assassinio è avvenuto in un contesto non meglio precisato che sembra ancora dettato da ombre e nefandezze: il corpo della vittima sarebbe stato riconsegnato alla famiglia privo degli organi interni. Un vero e proprio scempio ai danni del diritto d’espressione, eradicato dalle sue fondamenta.
Questa malvagia esperienza dei poeti-martiri che il vecchio Regno di Burma vive inconcepibile per il Ventunesimo secolo, è l’ennesima figlia di barbarità e recrudescenze, di inciviltà e torture che nel mondo hanno visto da una parte padroneggiare il Paese e mettere a tacere la folla, dall’altra denunciare convintamente senza nessuna reticenza contro l’autorità illiberale. La poca attenzione del fenomeno nel nostro Paese può trovare in parte fondamento anche nella difficoltà di comprendere una lingua a noi non familiare. I pochi testi diffusi in rete che appartenevano a questi intellettuali solo ora cominciano, in forma assai limitata e parziale, a venir riprodotti in blog e siti per opportuni memorial e tributi, tradotti in inglese. Lingua dalla quale ci si augura che vengano ulteriormente “versati” nei vari contesti nazionali – come il Nostro – per ampliarne la conoscenza, renderne fruibile l’opera, trasmettere i messaggi innervati da grande responsabilità, impegno etico e sacrificio.
Khet Thi, in quel clima di asfissia e di negazione delle libertà, ebbe a scrivere: «Non voglio dare il mio sostegno all’ingiustizia. Se avessi solo un minuto da vivere, vorrei che la mia coscienza in quel minuto rimanesse pulita». Sono, queste, decisioni che sono state pagate con la vita. Ma affinché non appaiano poca cosa o notizia frugale da angoli di mondo dove non abbiamo parenti, mai andremo, che non conosciamo e non ci interessa investigare neppure con una semplice digitazione in Google, il dovere è quello morale di tramandare quel che sta accadendo e denunciare le violenze. Affinché il Silenzio non s’adagi come velo sul vecchio Regno di Burma. Perché il popolo ritorni a camminare per le strade, perché le tinte d’aria non siano annebbiate di lacrimogeni, fumi di mitraglia, spruzzi d’acqua per dissuadere. Affinché Yangoon – come Mandalay e ogni altro punto di questo cortocircuito asiatico – ritorni a creare, sciolga il terrore e documenti, nella bestialità del vero, quel che accade nell’attesa della primavera che indori una cultura arcaica e spezzi per sempre prepotenze e odi diffusi.
Che siano garantiti i diritti e le libertà fondamentali della persona!Che i poeti ritornino a comporre con versi di rinata speranza e si gettino le basi della nuova generazione che molto ha da dire, con la spontaneità che la parola reclama. Libertà di informazione! Myanmar libero! Che i versi dei poeti scorrano come linfa nelle strade diYangoon, capitale passata di un regno di fregi ed ammicchi, ora acciaio spietato e urla. Questo perché, come ebbe a dire Ibrahim Nasrallah (poeta che, nel contesto palestinese, fece sue battaglie di simile risma), «Se i poeti perdono, il mondo non vincerà». Come non ricordare allora la carcerazione e i maltrattamenti subiti daAlekandros Panagulis (1939-1976), l’importante attivista e politico greco che in una delle sue poesie vergate nel carcere di Boiati scrisse: «C’erano schiavi un tempo/ oggetti di carne/ animali con due piedi/ che nascevano e morivano/ servendo bestie con due piedi/ Sì// c’erano schiavi un tempo/ che in vita/ li teneva la speranza/ della libertà».
Autore del Manifesto e primo firmatario: Lorenzo Spurio – Jesi, Italia, 13 maggio 2021
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