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Goffredo Fofi: l’eresia necessaria dell’intelligenza

Carlo Di Stanislao

In morte di un critico che non ha mai barattato la verità con il potere

«L’uomo libero è colui che, accettando la morte, rifiuta di servire l’ingiustizia.»
— Albert Camus

L’11 luglio 2025 Goffredo Fofi si è spento a 88 anni. Con lui non scompare solo un intellettuale, ma una forma di coscienza: un modo di stare nel mondo, nel pensiero, nella parola, radicalmente incompatibile con l’indifferenza, la superficialità e il compromesso. Uomo ruvido, libero, spesso scomodo, Fofi è stato una figura unica nella cultura italiana: testimone del Novecento più profondo, ma anche intellettuale del presente fino all’ultimo giorno.

Militante prima che critico, umano prima che accademico

Goffredo Fofi non ha mai concepito la cultura come un rifugio estetico. Per lui, scrivere era agire, leggere era partecipare, criticare era resistere. Già negli anni Sessanta, il suo lavoro tra gli immigrati meridionali nelle periferie torinesi lo distingueva da ogni altra figura dell’intellighenzia italiana. La sua opera L’immigrazione meridionale a Torino (1964) è un libro ancora attuale, non solo per la sua precisione sociologica ma per la ferocia etica con cui interroga le responsabilità collettive.

Un critico fuori dal coro: confronto con Rondi, Morandini, Kezich

Fofi ha sempre rifiutato il ruolo di intellettuale organico alle istituzioni, distinguendosi da figure anche prestigiose come Gian Luigi Rondi, Morando Morandini e Tullio Kezich.

Rondi, vicino al potere culturale e politico, fu spesso celebrativo e centralizzatore: la sua critica era quella di un funzionario della cultura.
Kezich era elegante e narrativo, ma con un’ottica borghese, poco incline al conflitto sociale.
Morandini, rigoroso e informatissimo, fu un grande compilatore, ma privo del fuoco ideologico che ardeva in Fofi.
Enrico Ghezzi, pur geniale, navigava in territori filosofico-visionari, spesso oscuri al grande pubblico.

Fofi era altro: un critico che partiva dalla strada, dal margine, e che chiedeva al cinema di essere coscienza collettiva. Dove gli altri ordinavano e catalogavano, lui scardinava e interrogava. Il suo sguardo non cercava la forma, ma l’anima.

L’influenza: centinaia di intellettuali cresciuti alla sua scuola

La forza eversiva di Goffredo Fofi non si è espressa solo nei suoi scritti, ma anche — e forse soprattutto — nell’influenza che ha avuto su almeno tre generazioni di intellettuali italiani, tra gli anni ’70 e il 2020.

Hanno scritto con lui, per lui o grazie a lui:
scrittori come Nicola Lagioia, Helena Janeczek, Valerio Magrelli, Alessandro Baricco
critici e studiosi come Roberto Esposito, Gianluca Didino, Pietro Del Soldà
registi e documentaristi come Daniele Vicari, Cecilia Mangini, Giorgio Diritti
giornalisti e operatori culturali come Christian Raimo, Francesco Piccolo, Chiara Valerio

Per molti, Fofi è stato un maestro senza cattedra, che formava più per attrito che per adesione. I suoi giudizi, spesso spietati, erano destinati a far crescere chi sapeva ascoltare. La sua influenza non si è mai basata sul potere, ma sulla coerenza.

Howard Hughes e l’epica virile del western

Sorprenderebbe alcuni scoprire che Fofi aveva una vera passione per il western americano, genere da molti considerato reazionario. Eppure, lui vi scorgeva un mito fondativo della giustizia, della solitudine eroica, del sacrificio personale. Amava in particolare il western classico, e tra i suoi nomi di culto Howard Hughes, il miliardario-regista-produttore che ha lasciato un’impronta anomala e potente nel cinema americano.

Per Fofi, il western non era escapismo, ma tragedia moderna: un balletto virile, dove ogni gesto ha il peso del destino. In quel cinema — da Il mio corpo ti scalderà a Il fuorilegge — trovava una tensione morale, una concezione epica del conflitto umano. Era un modo per parlare di uomini soli davanti al mondo, e questo, per lui, era già politica.

Una vita tra i libri, le riviste, le idee che camminano

Fofi è stato anche un grandissimo organizzatore culturale. Fondatore, direttore, collaboratore e mentore per decine di riviste fondamentali:
Quaderni piacentini, negli anni della sinistra eretica
Linea d’ombra, forse la sua creazione più raffinata
Lo straniero, luogo di pensiero etico-politico tra cinema, letteratura e pedagogia
Gli asini, l’ultima creatura, aperta alla scuola, alla marginalità, ai migranti

Attraverso queste testate, Fofi non ha mai costruito un impero personale, ma ha offerto uno spazio di libertà e di formazione per decine di giovani critici, scrittori, docenti, educatori. Era un intellettuale artigiano, che credeva nel lavoro editoriale come atto etico. Ogni articolo era un seme. Ogni rivista, un campo coltivato contro la desertificazione culturale.

Totò, l’uomo e la maschera: un capolavoro d’interpretazione morale

Tra le sue opere più importanti, merita un posto d’onore Totò. L’uomo e la maschera (1977, più volte riedito). Qui Fofi raggiunge un vertice raro: racconta Totò oltre la macchietta, oltre il comico, oltre il folklore. Lo osserva come figura tragica, maschera che ride per non piangere, clown che si spezza da dentro.

Fofi scrive su Totò come Pasolini scriveva sui sottoproletari: con devozione, pietà laica, attenzione assoluta. Ne coglie il corpo contorto, la malinconia, l’ironia feroce, e lo trasforma in un simbolo dell’Italia minore, irrisa e sublime, che ancora aspetta riscatto.

“Non si spegne chi accende”
poesia per Goffredo Fofi
di Italo Nostromo

a chi ha parlato piano
ma ha scosso le montagne

non si spegne chi accende
il pensiero nei vicoli
tra le urla della scuola
e il silenzio delle biblioteche

ha fatto della pagina
un campo da zappare
e del cinema
una finestra sui poveri

non si è mai seduto
sui troni della critica
ha scelto lo sgabello
e una tazza di vino rosso
con chi aveva fame
prima di cultura
di giustizia

ora è polvere
che scrive sui vetri
dei treni notturni
che portano sud al nord

non si spegne chi accende
non si dimentica chi ha ferito
con la luce.

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